— Lo chiamerò Rospo — disse la lupa, — perché invero, come tu hai detto, sovente il Macellaio si accontenta di dar la caccia ai rospi, marito mio. — La lupa credeva di aver parlato così per fare un complimento a suo marito, che aveva così prontamente ceduto ai suoi desideri, ma la verità è che il sangue del popolo che abita la cima montana al di là di Urth scorreva nelle vene di Rospo, e che i nomi di coloro che hanno quel sangue non possono rimanere celati a lungo.
All'esterno, risuonò una selvaggia risata: era la voce di Colui che Ride, che chiamava:
— È là, Signore! Là, là, là! Qui, qui, qui è la traccia! È entrato da quella porta!
— Vedi — osservò il lupo, — cosa succede a nominare il male? Nominare è chiamare, questa è la legge. — E, presa la spada, ne provò il filo.
La porta si oscurò nuovamente; era una porta stretta, perché solo le case degli sciocchi ed i templi hanno porte grandi, ed i lupi non sono sciocchi. Rospo l'aveva riempita quasi tutta, ed ora il Macellaio l'ostruiva interamente, voltando le spalle per entrare e chinando la grossa testa. Poiché i muri erano tanto spessi, la porta era simile ad un passaggio.
— Che cosa cerchi? — chiese il lupo, leccando il piatto della spada.
— Ciò che è mio, e solo quello — replicò il Macellaio. Gli smilodonti combattono con un coltello ricurvo in ciascuna mano, ed egli era molto più grosso del lupo, ma non gli andava l'idea di dover lottare con lui in uno spazio tanto ristretto...
— Non è mai stato tuo — replicò la lupa, e, deposto Rospo a terra, si avvicinò talmente al Macellaio che questi avrebbe potuto colpirla, se solo avesse osato. I suoi occhi erano fuochi balenanti. — La tua caccia era illegittima, ed illegittima la preda. Ora egli ha bevuto il mio latte, e sarà un lupo per sempre, consacrato alla luna.
— Ho visto lupi morti — ribatté il Macellaio.
— Sì, ed hai mangiato la loro carne, anche se era troppo marcia persino per le mosche, oserei dire. Forse mangerai anche la mia, se la caduta di un albero mi dovesse uccidere.
— Tu dici che è un lupo. Deve essere portato dinnanzi al Senato. — Il Macellaio si leccò le labbra, ma con lingua arida. Forse avrebbe fronteggiato il lupo all'aperto, ma non aveva il coraggio di affrontare entrambi, e sapeva inoltre che, se fosse riuscito a raggiungere la porta, essi avrebbero preso Rospo e si sarebbero ritirati nei passaggi sotterranei, fra le urne in rovina della tomba, dove la lupa lo avrebbe presto preso alle spalle.
— E cos'hai tu a che fare con il Senato dei Lupi? — chiese la lupa.
— Forse tanto quanto lui — replicò il Macellaio, ed andò via, in cerca di carne più facile da conquistare.
Parte III - L'oro dell'Uccisore Nero
Il Senato dei Lupi si riuniva ad ogni luna piena. Venivano tutti coloro che potevano farlo, poiché si presumeva che chiunque non venisse stava progettando qualche tradimento, magari offrendosi di sorvegliare il bestiame dei figli di Meschia in cambio di qualche rimasuglio di carne. Il lupo che fosse rimasto assente per due sedute del Senato veniva processato al suo ritorno, ed ucciso dalle lupe se riconosciuto colpevole.
Anche i cuccioli dovevano essere condotti dinnanzi al Senato, in modo che ogni lupo adulto che lo volesse, potesse osservarli ed accertarsi che fossero figli di un vero lupo. (Qualche volta le lupe si accoppiavano ad un cane, ma, anche se i figli dei cani spesso somigliano molto a quelli dei lupi, essi hanno sempre su di sé una qualche macchia bianca, poiché il bianco è il colore di Meschia, che rammenta la luce del Pancreatore, e tutti i figli di Meschia lasciano tuttora un marchio bianco su tutto quello che toccano.)
Così la lupa si presentò davanti al Senato dei Lupi quando giunse la luna piena, ed i suoi cuccioli giocavano dinnanzi a lei, ed anche Rospo... che sembrava veramente un rospo, perché la luce lunare che trapelava dalle finestre gli tingeva la pelle di verde... le stava vicino e si aggrappava al pelo della sua gonna. Il Presidente del Branco sedette sul seggio più alto, e, se fu sorpreso di vedere un figlio di Meschia condotto davanti al Senato, i suoi orecchi non lo dimostrarono. Egli cantò:
«In cinque sono vivi,
Figli e figlie nati vivi!
Se sono falsi, dite perché-é-é!
Se volete parlare, parlate testé-é-é!»
Quando i cuccioli venivano condotti dinnanzi al Senato, i genitori non li potevano difendere se la loro autenticità veniva contestata, mentre in qualsiasi altra circostanza sarebbe stato considerato omicidio se qualcuno avesse cercato di far loro del male.
— PARLATE TESTÉ-É-É! — Le mura fecero riecheggiare in distanza quelle parole, cosicché nelle capanne della valle i figli di Meschia si affrettarono a sbarrare le porte, e le figlie di Meschiane si strinsero al seno i loro figli.
Allora il Macellaio, che stava attendendo, celato dietro l'ultimo lupo, si fece avanti.
— Perché ritardate? — chiese. — Io non sono intelligente... sono troppo forte per essere intelligente, come capirete bene. Ma qui ci sono quattro cuccioli, ed un quinto che non è un lupo, ma una mia preda.
— Che diritto ha lui di parlare qui? — chiese allora il lupo. — Certo lui non è un lupo.
— Chiunque può parlare — gridarono una dozzina di voci, — se un lupo richiede la sua testimonianza. Parla, Macellaio!
Allora la lupa allentò la sua spada nel fodero e si preparò all'ultima battaglia, se le cose fossero precipitate. Un demone, essa sembrava, con il volto magro e gli occhi ardenti, poiché un angelo spesso non è altro che un demone che si erge fra noi ed il nemico.
— Tu dici che io non sono un lupo — continuò il Macellaio, — ed hai ragione. Noi sappiamo che odore abbia un lupo, che voce e che aspetto. Quella lupa ha preso un figlio di Meschia come suo cucciolo, ma noi tutti sappiamo che avere una lupa per madre non significa essere lupi.
— Lupi sono coloro che hanno lupi per genitori — gridò il lupo. — Io prendo questo cucciolo come mio figlio!
A quelle parole ci fu una risata, e, quando essa si spense, una strana voce continuò a ridere: era Colui che Ride, venuto a consigliare il Macellaio davanti al Senato dei Lupi, e che gridò:
— Molti hanno parlato così-hì-hì! Ma i loro cuccioli hanno nutrito il branco!
— Sono stati uccisi per il loro pelo bianco — disse il Macellaio. — La pelle è nascosta sotto il pelo: come può vivere questo essere? Datelo a me!
— Due devono parlare — annunciò il Presidente, — questa è la legge. Chi parla in favore di questo cucciolo? È un figlio di Meschia, ma è anche un lupo? Due che non siano i suoi genitori devono parlare per lui.
Allora l'Essere Nudo, che viene considerato un membro del Senato perché istruisce i cuccioli, si alzò.
— Non ho mai insegnato ad un figlio di Meschia — disse. — Potrei imparare qualcosa facendolo. Io parlo per lui.
— Un altro — disse il Presidente. — Un altro deve parlare.
Ci fu solo silenzio, poi l'Uccisore Nero avanzò dal fondo della sala: tutti temono l'Uccisore Nero, poiché, se il suo manto è soffice quanto il pelo di un cucciolo, i suoi occhi ardono nella notte.
— Due che non sono lupi hanno già parlato qui — egli disse. — Potrei forse non parlare anch'io? Ho dell'oro. — E sollevò una borsa.
— Parla! Parla! — gridarono cento voci.
— La legge dice anche che la vita di un cucciolo può essere comprata — replicò l'Uccisore Nero, e si versò l'oro su una mano, riscattando così un impero.
Parte IV - L'Aratura del Pesce
Se si volessero narrare tutte le avventure di Rospo, che visse fra i lupi ed imparò a cacciare ed a combattere, bisognerebbe riempire molti libri. Ma tutti quelli che hanno il sangue di coloro che abitano la cima montana al di là di Urth, sentono il richiamo, prima o poi, e verme il tempo in cui Rospo portò il fuoco al Senato dei Lupi e disse:
— Questo è il Fiore Rosso. Nel suo nome io governo.
E, quando nessuno gli si oppose, egli assunse il comando dei lupi e li chiamò il popolo del suo regno, e presto anche gli uomini vennero a lui oltre ai lupi, e, sebbene fosse ancora un ragazzo, egli sembrava più alto degli uomini che lo circondavano perché aveva il sangue di Inizio d'Estate.
Una notte, quando le rose selvatiche stavano sbocciando, Inizio d'Estate venne a lui in sogno e gli parlò di sua madre, Uccello di Bosco, del padre e dello zio di lei e di suo fratello. Rospo trovò suo fratello, che era diventato un pastore, ed insieme a lui, ai lupi, all'Uccisore Nero ed a molti uomini, andò dal re e richiese ciò che spettava loro per eredità. Il re era vecchio, ed i suoi figli erano morti senza lasciare eredi, quindi il vecchio consegnò loro il suo regno, e di esso Pesce prese le città e le fattorie, e Rospo le colline selvagge.
Ma il numero degli uomini che seguivano Rospo crebbe, ed essi rubarono le donne di altri popoli, ed ebbero figli, e, quando i lupi non furono più necessari e tornarono nelle terre selvagge, Rospo decise che il suo popolo aveva bisogno di una città, con mura che la proteggessero quando gli uomini erano in guerra. Andò allora dove pascolavano le mandrie di Pesce e prese una giumenta ed un toro bianchi, e li aggiogò all'aratro e con essi tracciò un solco che doveva contrassegnare il perimetro del muro. Pesce venne a cercare le sue bestie mentre il popolo si stava preparando ad iniziare la costruzione, e, quando la gente di Rospo gli mostrò il solco e disse che da esso sarebbe nato il loro muro, egli rise e saltò al di là di esso. Ed il popolo, sapendo che le cose piccole non diverranno mai grandi se vengono derise, lo uccise. Ma egli era ormai un uomo adulto, quindi la profezia fatta alla nascita di Vento di Primavera si era adempiuta.
Quando Rospo vide che Pesce era morto, lo seppellì nel solco per assicurare fertilità alla terra, perché così gli era stato insegnato dall'Essere Nudo, che era anche chiamato il Selvaggio, o Squanto.
XX
IL CIRCOLO DEI MAGHI
Alle prime luci del mattino ci addentrammo in quella giungla montana, e sembrò di entrare in una casa. Dietro di noi, il sole giocava sull'erba, i cespugli e le pietre, ma non appena oltrepassammo una cortina di viticci tanto fitta che dovetti tagliarla con la mia spada, non vedemmo dinnanzi a noi che ombra ed i torreggianti tronchi degli alberi. Nessun insetto ronzava, nessun uccello cinguettava, non c'era un alito di vento. All'inizio, il suolo nudo su cui camminavamo era quasi sassoso come quello dei pendii montani, ma, prima che avessimo percorso una lega, si fece più liscio, ed infine giungemmo ad una corta scalinata che era certo stata intagliata con un piccone.
— Guarda! — disse il bambino, e m'indicò una cosa rossa e dalla forma strana che giaceva sull'ultimo scalino.
Mi fermai per osservare: era la testa di un galletto, e due aghi di metallo erano stati infilzati nei suoi occhi, mentre dal becco pendeva una striscia di pelle da muta di un serpente.
— Che cos'è? — Gli occhi del bambino erano dilatati.
— Un incantesimo, credo.
— Lasciato qui da una strega? Che cosa significa?
Tentai di rammentare quel poco che sapevo di quella falsa arte. Da bambina, Thecla era stata affidata alle cure di una nutrice che faceva e disfaceva nodi per affrettare la nascita dei bambini e che sosteneva di vedere il volto del futuro marito di Thecla (era la mia, mi domando,) a mezzanotte, riflessa su un piatto che aveva contenuto una torta nuziale.
— Il gallo — spiegai al bambino, — è l'araldo del giorno, e, in un senso magico, si può dire che il suo canto, all'alba, faccia spuntare il sole. È stato accecato, forse, affinché non veda quando sta per spuntare l'alba. La muta di pelle di un serpente significa pulizia o ringiovanimento. Il gallo tiene nel becco la pelle vecchia.
— Ma questo che cosa significa? — insistette il bambino.
Risposi che non lo sapevo, ma, nel mio cuore, mi sentivo certo che dovesse trattarsi di un incantesimo contro la venuta del Nuovo Sole, e mi fece male, in un certo senso, scoprire che quel rinnovamento, nel quale avevo con fervore sperato quando ero ragazzo, ed in cui ora credevo ben poco, potesse essere ostacolato da qualcuno. Nello stesso tempo, ero consapevole del fatto di avere con me l'Artiglio. I nemici del Nuovo Sole avrebbero certamente distrutto l'Artiglio, se fosse caduto nelle loro mani.
Prima di aver percorso altri cento passi, vedemmo strisce di tessuto rosso appese agli alberi. Alcune erano pulite, ma altre erano scritte in nero con caratteri che non comprendevo, o, come mi sembrava più probabile, con quei simboli ed ideogrammi che coloro che pretendono di sapere più di quanto sappiano in realtà, usano talvolta ad imitazione della scrittura degli astronomi.
— Faremmo meglio a tornare indietro — dissi, — o a girare al largo.
Non avevo finito di parlare che sentii un fruscio alle mie spalle, e, per un momento credetti veramente che le figure apparse sul sentiero fossero demoni, dai grandi occhi e striati di nero, bianco e scarlatto. Poi mi accorsi che erano soltanto uomini nudi dai corpi dipinti. Le loro mani erano munite di artigli d'acciaio che essi sollevarono perché li vedessi. Estrassi Terminus Est.
— Non ti tratterremo — disse uno di loro. — Va', lasciaci, se lo desideri. — Mi parve che sotto la pittura egli avesse la pelle chiara ed i capelli biondi del sud.
— E sareste saggi a non farlo. Con questa lunga lama, vi potrei uccidere prima che mi toccaste.
— Allora va' — mi ingiunse l'uomo biondo, — se non hai obiezioni a lasciare il bambino con noi.
A quelle parole, mi guardai intorno, cercando il piccolo Severian, ma questi era, chissà come, svanito dal mio fianco.
— Se desideri che ti venga restituito, tuttavia, mi consegnerai la tua spada e verrai con noi. — Senza mostrare alcun segno di timore, l'uomo mi si avvicinò e protese le mani. Gli artigli d'acciaio emergevano dalle sue dita, ed erano fissati ad una sbarra di ferro che l'uomo teneva sul palmo. — Non te lo chiederò di nuovo.
Rinfoderai la lama, quindi mi sfilai la tracolla che sosteneva il fodero e gli consegnai il tutto.
L'uomo chiuse gli occhi: le sue palpebre erano state dipinte con puntini neri cerchiati di bianco, come il corpo di certi lombrichi che vogliono indurre gli uccelli a scambiarli per serpenti.
— Quest'arma ha bevuto molto sangue?
— Sì.
I suoi occhi si riaprirono e mi fissarono senza sbattere le palpebre: la faccia dipinta di quell'uomo... come quella dell'altro che gli stava alle spalle, era inespressiva come una maschera.
— Una spada forgiata da poco avrebbe ben poco potere qui, ma questa potrebbe fare molto male.
— Confido che mi sarà restituita quando io e mio figlio ce ne andremo. Che ne avete fatto di lui?
Non ebbi risposta. I due uomini mi affiancarono, uno per lato, e si avviarono giù per il sentiero nella direzione in cui io stesso ero avviato poco prima con il ragazzo. Dopo un momento, li seguii.
Potrei definire un villaggio il luogo in cui venni condotto, ma non era un villaggio nel senso normale del termine, non come lo era Saltus, e non era neppure un luogo come gli agglomerati di capanne di autoctoni che talvolta vengono definiti villaggi. Qui gli alberi erano più grandi e più distanziati di tutti quelli che avevo visto fino ad allora, e l'intreccio delle loro foglie formava un tetto impenetrabile a parecchi cubiti di altezza dalle nostre teste. Quegli alberi erano tanto grandi che sembravano crescere da ere; una scala portava ad una porta nel tronco di una pianta, nel quale erano state aperte alcune finestre. Una casa di parecchi piani era stata costruita sui rami di un'altra pianta, ed una cosa che somigliava al nido di un gigantesco rigogolo pendeva dai rami di una terza. Parecchie aperture nel suolo indicavano che il terreno sotto i nostri piedi era stato scavato.
Fui condotto fino ad una di quelle aperture e mi venne ordinato di scendere una rozza scala che portava verso il buio. Per un momento, non so perché, temetti che la scala potesse discendere molto, in caverne altrettanto profonde quanto quelle che esistevano al disotto della casa del tesoro degli uomini-scimmia, ma non era così. Dopo aver disceso la scala per un tratto che non doveva superare il quadruplo della mia altezza, ed aver oltrepassato ciò che in quel momento mi parve una stuoia rovinata, mi trovai in una stanza sotterranea.
L'apertura sulla mia testa era stata richiusa, lasciando tutto al buio. Annaspando, esplorai il posto e scoprii che doveva misurare all'incirca tre passi per quattro. Il pavimento e le pareti erano fatti di terra, ed il soffitto di tronchi non scortecciati, e non c'era alcun tipo di mobilio.
Eravamo stati catturati verso metà mattina, e fra circa sette turni di guardia avrebbe fatto buio. Prima di quel momento, poteva darsi che sarei stato condotto in presenza di qualche persona autorevole, ed in questo caso avrei fatto del mio meglio per persuaderla che il bambino ed io eravamo innocui ed avremmo dovuto essere lasciati passare indisturbati. Se questo non fosse accaduto, allora avrei risalito la scaletta per vedere se ero in grado di aprire la porta. Mi sedetti ed aspettai.
Sono certo che non dormii, ma mi servii della mia capacità di ricordare il passato, e così, almeno spiritualmente, lasciai quel luogo oscuro. Per qualche tempo, osservai gli animali nella necropoli al di là del muro della Cittadella, come avevo fatto da ragazzo. Vidi le oche tracciare punte di freccia nel cielo e. vidi volpi e conigli andare e venire, mentre correvano ancora una volta per me sull'erba o lasciavano le loro tracce sulla neve. Vidi Triskele giacere, apparentemente morto, fra i rifiuti dietro la Torre dell'Orso, e lo vidi rabbrividire e sollevare la testa per leccarmi la mano. Sedetti con Thecla nella sua piccola cella, dove leggevamo ad alta voce l'uno per l'altra e ci fermavamo per discutere su quello che avevamo letto.
— Il mondo si sta fermando come un orologio — disse Thecla. — L'Increato è morto, e chi lo ricreerà? Chi lo potrebbe?
— Certo si suppone che gli orologi si fermino quando il loro padrone muore.
— Questa è superstizione. — Mi tolse il libro dalle mani in modo da poterle tenere fra le sue, che erano affusolate e molto fredde. — Quando il loro proprietario è sul letto di morte, nessuno versa acqua fresca nel meccanismo. Quando egli muore, le infermiere guardano l'orologio per annotare l'ora della morte, e più tardi scoprono che l'orologio è fermo e segna ancora la stessa ora.
— Stai dicendo che l'orologio si ferma prima del suo proprietario — replicai. — Quindi, se l'universo si sta fermando, questo non significa che l'Increato sia morto... ma solo che non è mai esistito.
— Ma lui è malato. Guardati intorno, guarda questo posto e le torri sopra di te. Sai che non lo hai mai fatto, Severian?
— Egli potrebbe ancora chiedere a qualcun altro di caricare di nuovo il meccanismo — suggerii, e poi, rendendomi conto di quel che avevo detto, arrossii.
— Non ti avevo più visto arrossire così — rispose Thecla, — da quando mi sono spogliata la prima volta per te. Ho posato le tue mani sui miei seni, e tu sei diventato rosso come una ciliegia. Te lo ricordi? Chiedere a qualcuno di ricaricarlo? Dov'è ora il giovane ateista?
— Confuso — replicai, posandole la mano sulla coscia, — come lo era allora, alla presenza della divinità.
— Non mi credi, quindi? Penso che tu abbia ragione. Io devo essere ciò di cui sognate voi giovani torturatori... una bella prigioniera, non ancora mutilata, che si rivolge a voi per placare la sua bramosia.
— Sogni quali sei tu giacciono al di là della mia portata — replicai, nel tentativo di essere galante.
— Certamente no, visto che ora io sono in tuo potere.
Qualcosa era nella cella con noi. Guardai verso la porta sbarrata, e verso la lampada di Techla, con il riflettore d'argento, poi in tutti gli angoli. La cella si fece più scura, e Thecla e perfino io stesso svanimmo con la luce, ma la cosa che aveva invaso i miei ricordi non svanì.
— Chi sei — chiesi, — e che cosa vuoi da noi?
— Sai bene chi siamo noi, e noi sappiamo chi sei tu. — Era una voce fredda e, credo, la più autorevole che avessi udito. Neanche l'Autarca parlava in quel modo.
— Chi sono io, allora?
— Severian di Nessus, littore di Thrax.
— Io sono Severian di Nessus — replicai, — ma non sono più il littore di Thrax.
— Così vorresti farci credere.
Seguì un lungo silenzio, ed alla fine compresi che il mio interlocutore non mi avrebbe fatto domande ma mi avrebbe piuttosto costretto, se desideravo la libertà, a spiegargli la mia situazione. Avevo una gran voglia di mettergli le mani addosso... non poteva distare da me più di pochi cubiti... ma sapevo che, molto probabilmente, doveva essere munito di artigli simili a quelli che mi avevano mostrato gli uomini sul sentiero. Volevo anche, e già da qualche tempo, estrarre l'Artiglio dalla sua custodia di cuoio, anche se nessun atto avrebbe potuto essere più stupido di quello.
— L'arconte di Thrax voleva che uccidessi una certa donna — spiegai, — ed io invece l'ho liberata, e sono dovuto fuggire dalla città.
— Superando per magia le postazioni dei soldati.
Avevo sempre ritenuto che i cosiddetti operatori di magie fossero ciarlatani; ora, qualcosa nel tono del mio interrogatore mi suggerì che, nel momento in cui cercavano d'ingannare gli altri, essi ingannavano anche se stessi. C'era derisione nel suo tono, ma diretta a me, non alla magia.
— Forse — replicai. — Che ne sai dei miei poteri?
— Che non sono sufficienti a liberarti da questo luogo.
— Non ho ancora tentato di liberarmi, eppure mi sono già liberato.
— Tu non eri libero! — La voce era turbata. — Hai solo portato qui lo spirito della donna!
Lasciai fuoriuscire il fiato tentando di non far udire il mio sospiro. Nell'Anticamera della Casa Assoluta, una ragazzina mi aveva una volta scambiato per una donna alta, quando Thecla aveva per un momento distorto la mia personalità. Ora sembrava chiaro che la ricordata Thecla doveva aver parlato tramite la mia bocca.
— Allora è certo che sono un negromante — osservai, — che può controllare gli spiriti dei morti. Perché quella donna è morta.
— Ci hai detto di averla liberata.
— Ho liberato un'altra donna, che somigliava solo leggermente alla prima. Cos'avete fatto a mio figlio?
— Lui non ti chiama padre.
— Soffre di allucinazioni — replicai.
Non ebbi risposta. Dopo qualche tempo, mi alzai e feci scorrere ancora una volta le mani sulle pareti della mia prigione sotterranea: erano di terra compatta, come prima. Non avevo visto alcuna luce né udito alcun suono, ma mi sembrava che sarebbe stato possibile coprire l'apertura con qualche struttura portatile, per non far trapelare la luce del giorno, e che, se era ben costruito, il battente poteva essere sollevato in silenzio. Salii il primo scalino, che scricchiolò sotto il mio peso.
Salii un altro scalino, poi un altro, ed ognuno di essi scricchiolò. Poi tentai di satire il quarto, e mi sentii pungere la testa e le spalle da punte di daghe, ed un rivoletto di sangue mi scese sul collo dall'orecchio sinistro.
Mi ritirai sul terzo scalino ed annaspai, cercando con le mani: la cosa che mi era parsa una stuoia lacera quando ero entrato nella stanza sotterranea, era in effetti formata da una ventina e più di schegge acuminate di bambù, fissate al passaggio in modo che avessero le punte rivolte verso il basso. Ero disceso con facilità, perché il mio corpo le aveva spinte da un lato, ma ora m'impedivano di salire, così come gli arpioni su una lancia da pesca impediscono al pesce di fuggire. Afferrai uno dei bambù con le mani e tentai di spezzarlo, ma, anche se forse ci sarei riuscito usando entrambe le mani, con una sola era impossibile. Se avessi avuto luce e tempo a disposizione, avrei forse potuto aprirmi un varco ma non osavo correre un simile rischio, per cui balzai nuovamente a terra.
Un altro giro della stanza non mi disse nulla di più di quanto già sapessi, eppure mi sembrava impossibile che il mio interrogatore fosse risalito su per la scaletta senza fare alcun rumore, anche ammettendo che conoscesse un trucco per superare i bambù. Tastai tutto il pavimento stando in ginocchio, ma non trovai nulla di nuovo.
Tentai allora di smuovere la scaletta, ma era fissata. Allora, cominciando dall'angolo più vicino alla scala, saltai e toccai il muro più in alto che potei; quindi, spostandomi di lato di mezzo passo, saltai ancora. Ero arrivato in un punto che doveva trovarsi più o meno dalla parte opposta a dove ero seduto io in precedenza, quando lo trovai: un buco rettangolare alto forse un cubito e largo due, il cui bordo inferiore si trovava poco più in alto della mia testa. Il mio interrogatore poteva essersi calato, senza far rumore, di là con un corda ed essere andato via nello stesso modo, ma più probabilmente aveva soltanto sporto la testa e le spalle dall'apertura, in modo che la sua voce suonasse come se lui fosse stato davvero nella stanza con me. Afferrai meglio che potevo il bordo del buco e mi tirai su.
XXI
IL DUELLO MAGICO
La camera posta al di là di quella in cui ero stato imprigionato era identica alla prima, anche se il suo pavimento era posto più in alto. Naturalmente, era immersa nell'oscurità più completa, ma ora che ero certo di non essere più osservato, estrassi l'Artiglio dal sacchetto e mi guardai intorno alla sua luce che, per quanto debole, era sufficiente.
Non c'erano scale, ma una stretta porta dava accesso a. quella che supposi essere una terza camera sotterranea. Riposto l'Artiglio, la superai, ma mi trovai invece in un tunnel non più largo della porta stessa e che descrisse parecchie svolte prima ancora che avessi fatto una mezza dozzina di passi. All'inizio supposi che fosse solo un passaggio tortuoso, avente lo scopo d'impedire che la luce del giorno trapelasse e tradisse l'apertura che si affacciava nella stanza dove ero stato rinchiuso, ma in quel caso non sarebbero state necessarie più di tre svolte; invece le mura parvero continuare a curvarsi ed io rimasi nell'oscurità più impenetrabile. Alla fine, estrassi di nuovo l'Artiglio.
Forse a causa dello spazio ristretto in cui mi trovavo, la sua luce mi parve un po' più forte, ma non c'era nulla da vedere che le mie mani non avessero già scoperto al tatto: ero solo, e mi trovavo in un labirinto dalle pareti di terra e dal soffitto (ora appena al di sopra della mia testa) di pali grezzi, le cui strette svolte soffocavano presto la luce.
Stavo per riporre ancora una volta l'Artiglio, quando avvertii un odore ad un tempo pungente ed alieno. Il mio naso non è affatto sensibile come quello del lupo del racconto... se mai, il mio odorato è inferiore a quello degli altri, ma mi parve di riconoscere quell'odore, anche se mi ci vollero parecchi istanti prima di identificarlo per quello che avevo percepito nell'Anticamera, la mattina della nostra fuga, quando ero tornato a prendere Jonas dopo aver parlato con la ragazzina. Questa mi aveva detto che qualcosa, un cercatore senza nome, si stava aggirando fra i prigionieri, ed io avevo trovato una sostanza viscida sul pavimento e sul muro vicino al punto in cui era sdraiato Jonas.
Non riposi più l'Artiglio, dopo aver avvertito quell'odore, ma, per quanto incrociassi parecchie volte una pista fetida nell'aggirarmi nel labirinto, non vidi mai la creatura che la lasciava. Dopo aver vagato per un turno di guardia o forse più, raggiunsi una scaletta che conduceva fuori attraverso una piccola porta aperta. Il quadrato di luce solare in cima ad essa era ad un tempo accecante e meraviglioso, e per qualche tempo mi crogiolai al suo tepore senza neppure mettere piede sulla scaletta. Mi sembrava certo che, se fossi salito, sarei stato immediatamente ricatturato, eppure ero talmente affamato ed assetato che riuscivo a stento a trattenermi dal salire, ed il pensiero di quella lurida creatura che mi stava cercando... ero certo che fosse uno degli animaletti di Hethor... mi faceva venir voglia di far tutti i gradini in un solo salto.
Alla fine, salii con cautela e sollevai la testa al disopra del livello del suolo: non mi trovavo, come avevo supposto, all'interno del villaggio che avevo visto; le svolte del labirinto dovevano avermi condotto al di là di esso, fino ad una qualche uscita segreta. I grandi alberi crescevano qui più ravvicinati, e la luce che mi era parsa tanto brillante, era tinta di verde dalle loro foglie. Uscii all'esterno, e scoprii che ero sbucato fuori da un buco fra due radici, un'apertura così ben nascosta che sarei potuto passare ad un passo di distanza da essa senza vederla. Se avessi potuto, avrei bloccato il buco con qualche peso, per evitare o almeno ritardare l'uscita della creatura che mi stava dando la caccia, ma a portata di mano non c'erano pietre o altri oggetti adatti allo scopo.
Seguendo il vecchio trucco di osservare la pendenza del terreno e di camminare il più possibile verso valle, trovai ben presto un ruscello; sopra di esso si vedeva un po' di cielo aperto, e giudicai che il giorno doveva essere finito da otto o nove turni di guardia. Intuendo che il villaggio non doveva trovarsi molto lontano dalla fonte di acqua corrente che avevo trovato, individuai in breve anche quello. Avvolto nel mio manto di fuliggine e tenendomi dove l'ombra era più fitta, l'osservai per qualche tempo: una volta un uomo... non dipinto come quelli che ci avevano fermati sul sentiero, attraversò lo spiazzo, e dopo un po' un secondo uomo uscì dalla capanna sospesa, andò a bere al ruscello e tornò indietro.
Si fece più buio, e lo strano villaggio si destò. Una dozzina di uomini uscirono dalla capanna sospesa e cominciarono ad ammucchiare legna nel centro dello spiazzo; altri tre, ammantati e muniti di bastoni forcuti, uscirono dalla casa nell'albero, mentre altri ancora, che dovevano aver sorvegliato i sentieri della giungla, scivolarono fuori dall'ombra non appena il fuoco fu acceso, e distesero un tessuto davanti ad esso.
Uno degli uomini ammantati si sistemò con la schiena al fuoco, mentre gli altri due si accoccolarono ai suoi piedi; c'era qualcosa di straordinario in tutti e tre, che mi faceva pensare al portamento degli esaltati più che a quello degli Hieroduli che avevo visto nei giardini della Casa Assoluta... il portamento che viene dalla consapevolezza di essere un capo, anche se tale consapevolezza separa forzatamente il capo dal resto della comune umanità. Uomini dipinti e non, sedevano a gambe incrociate al suolo, rivolti verso l'albero, ed udii un mormorio di voci, sormontate da quella più forte dell'uomo in piedi, ma ero troppo lontano per capire cosa dicessero. Dopo qualche tempo, gli uomini accucciati si alzarono in piedi, ed uno di essi allargò il suo manto come una tenda, ed il figlio di Becan, che avevo adottato come mio, si fece avanti. L'altro uomo produsse Terminus Est nella stessa maniera e la snudò, mostrando alla folla la sua lama lucente ed il nero opale dell'impugnatura. Allora, uno degli uomini dipinti si alzò ed avanzò un po' verso di me (tanto che temetti che mi potesse scorgere, anche se mi ero coperto il volto con la maschera), sollevando una porta inserita nel terreno. Ben presto, l'uomo riemerse da un'altra apertura più vicina al fuoco, e, avanzando più rapidamente, fece il suo rapporto all'uomo ammantato.
Potevano esserci ben pochi dubbi in merito a cosa stesse dicendo, per cui, raddrizzate le spalle, camminai verso la luce del fuoco.
— Non sono là — dissi, — sono qui.
Furono in molti a trattenere il respiro, un suono piacevole ad udirsi, anche se ero convinto che sarei morto presto.
— Come vedi — osservò quello di mezzo dei tre uomini ammantati, — non ci puoi sfuggire. Eri libero, eppure ti abbiamo richiamato indietro. — La sua voce era la stessa che mi aveva interrogato nella cella sotterranea.
— Se ti sei spinto molto avanti sulla Via — replicai, — sai bene di avere su di me meno autorità di quanta possano credere gli ignoranti. — (Non è difficile scimmiottare il modo in cui parlano quegli individui, perché il loro linguaggio scimmiotta a sua volta quello degli asceti e di certe sacerdotesse come le Pellegrine). — Tu hai rubato mio figlio, che è anche figlio della Bestia Che Parla, come devi ormai sapere se lo hai interrogato. Per ottenere la sua restituzione, io ho consegnato la mia spada ai tuoi schiavi, e, per qualche tempo, mi sono sottomesso a te. Ora riprenderò la mia arma.
C'è un punto della spalla che, se pressato con forza con il pollice, provoca la paralisi dell'intero braccio: io posai la mano sulla spalla dell'uomo che teneva Terminus Est, e questi lasciò cadere la spada ai miei piedi. Con maggior presenza di spirito di quanta ne avrei attribuita ad un bambino, il piccolo Severian la raccolse e me la porse. L'uomo ammantato che stava in mezzo sollevò il bastone e gridò: — Alle armi! — Ed i suoi seguaci si alzarono come un sol uomo. Alcuni erano muniti di artigli, ed altri avevano solo coltelli.
Mi sistemai Terminus Est sulla spalla, al solito posto, e dissi:
— Certo non penserete che abbia bisogno di quest'antica spada come arma? Essa ha ben più grandi proprietà, come voi tutti dovreste sapere.
— Così ci ha appena detto Abundantius — replicò in fretta l'uomo che aveva fatto apparire il piccolo Severian; l'altro uomo ammantato si stava ancora massaggiando il braccio.
Fissai l'uomo di centro, che era certo quello a cui si era alluso: i suoi occhi erano astuti, e freddi come pietre.
— Abundantius è saggio — commentai, tentando al contempo di escogitare un modo per poter uccidere quell'uomo senza attirarmi addosso tutti gli altri. — E conosce anche, credo, la maledizione che ricade su chi fa del male ad un mago.
— Allora tu saresti un mago — chiese Abundantius.
— Io, che ho tolto la sua preda dalle mani dell'arconte e sono passato, invisibile, in mezzo al suo esercito? Sì, sono stato chiamato così.
— Provaci allora che sei un mago, e noi ti accoglieremo come un fratello. Ma se fallirai la prova o ti rifiuterai di sottometterti ad essa... noi siamo molti, e tu hai una sola spada
— Non fallirò alcuna prova onesta — ribattei, — anche se né tu né i tuoi seguaci avete l'autorità d'impormene una.
Il mio interlocutore era troppo astuto per lasciarsi attirare in una trappola del genere.
— Questa prova è nota a tutti i presenti eccetto che a te, ed è anche risaputo che è onesta. Tutti quelli che vedi sono riusciti a superarla o sperano di riuscirci.
Mi condussero in una casa che non avevo ancora visto, un posto costruito con tronchi e nascosto fra gli alberi, che non aveva finestre ma un solo ingresso. Quando le torce furono portate dentro, vidi che la sua unica stanza era arredata soltanto con un tappeto d'erba intrecciata ed era tanto lunga rispetto alla larghezza da sembrare un corridoio.
— Qui combatterai il tuo duello con Decuman — spiegò Abundantius, indicando l'uomo cui avevo intorpidito il braccio, il quale mi parve leggermente sorpreso per essere stato prescelto. — Tu hai avuto la meglio su di lui vicino al fuoco, ed ora lui deve aver la meglio su di te, se può. Tu siederai qui, vicino alla porta, in modo da poter essere certo che non entrerà nessuno ad aiutarlo, e lui siederà all'estremità più lontana. Non vi potrete avvicinare l'uno all'altro, né toccarvi come tu hai toccato lui vicino al fuoco. Dovrete intessere i vostri incantesimi, e domattina vedremo chi dei due avrà sottomesso l'altro.
Prendendo per mano il piccolo Severian, lo condussi fino al lato chiuso della costruzione.
— Io mi siederò qui — replicai. — Sono perfettamente certo che non cercherete di venire in aiuto di Decuman, ma voi non avete modo di sapere se io abbia o meno qualche compagno nella giungla, là fuori. Vi siete offerti di fidarvi di me, quindi io mi fiderò di voi.
— Sarebbe meglio — osservò Abundantius, — che tu lasciassi il bambino alla nostra custodia.
— Devo averlo con me — risposi, scuotendo il capo. — È mio, e quando me lo avete sottratto, sul sentiero, mi avete sottratto metà del mio potere. Non mi separerò di nuovo da lui.
— Come desideri — annuì Abundantius, dopo un momento. — Volevamo solo che non gli accadesse alcun male.
— Non gli accadrà alcun male — ribattei.
C'erano anelli di ferro nelle pareti, e quattro degli uomini nudi vi infilarono le loro torce prima di andarsene. Decuman sedette a gambe incrociate vicino alla porta, il bastone posato in grembo, ed anch'io sedetti, tirando vicino a me il bambino.
— Ho paura — mi disse, nascondendo il visino nel mio mantello.
— Hai ogni diritto di averne: gli ultimi tre giorni sono stati molto brutti per te.
Decuman aveva iniziato un lento canto ritmico.
— Piccolo Severian, voglio che tu mi dica cosa ti è successo sul sentiero. Mi sono guardato intorno e tu non c'eri più.
Dovetti confortarlo e rassicurarlo per qualche tempo, ma alla fine i suoi singhiozzi cessarono.
— Loro sono sbucati fuori... gli uomini colorati come alberi e con gli artigli, ed io ho avuto paura e sono scappato.
— Tutto qui?
— E poi altri uomini colorati come alberi sono venuti fuori e mi hanno preso e mi hanno fatto scendere sotto terra dove era buio. Poi mi hanno svegliato e mi hanno sollevato, ed io mi sono trovato dentro il mantello di un uomo. Poi sei arrivato tu e mi hai preso.
— Nessuno ti ha fatto domande?
— Un uomo, nel buio.
— Capisco. Piccolo Severian, non devi fuggire mai più come hai fatto sul sentiero... lo capisci? Scappa solo se scappo anch'io. Se tu non fossi scappato quando abbiamo incontrato quegli uomini colorati come alberi, ora non saremmo qui.
Il ragazzo annuì.
— Decuman — chiamai. — Decuman, possiamo parlare?
Egli m'ignorò, salvo forse che per il fatto che la sua cantilena si fece più forte. Il suo volto era sollevato, come se stesse fissando il soffitto, ma gli occhi erano chiusi.
— Cosa sta facendo? — chiese il ragazzo.
— Sta intessendo un incantesimo.
— Ci farà del male?
— No — risposi. — Simili magie sono per lo più imbrogli... come il sollevarti attraverso un buco in modo che sembri che quell'uomo ti faccia apparire sotto il mantello.
Eppure, mentre parlavo, ero consapevole dell'esistenza di qualcosa di più. Decuman stava concentrando la sua mente su di me come pochi sono in grado di fare, ed a me sembrava di essere nudo in un posto fortemente illuminato dove migliaia di occhi mi osservavano. Una delle torce tremolò e si spense, e, mentre la luce nella stanza diveniva più tenue, l'altra luce, che non potevo vedere, parve diventare più vivida.
Mi alzai. C'erano metodi per uccidere che non lasciavano alcuna traccia, e li ripassai mentalmente mentre camminavo.
All'improvviso, dai muri scaturirono su entrambi i lati alcune picche lunghe più di un metro. Non era il tipo di lancia usato dai soldati, armi ad energia dalle cui cime scaturiscono globi di fiamma, ma semplici pali di legno dalle punte di ferro, come quelli dei contadini di Saltus, anche se erano ugualmente in grado di uccidere a distanza ravvicinata. Tornai a sedermi, ed il ragazzo osservò:
— Credo che siano fuori, e che stiano guardando dalle fessure.
— Sì, adesso lo so anch'io.
— Cosa possiamo fare? — chiese, e, quando non risposi, aggiunse: — Chi sono queste persone, Padre?
Era la prima volta che mi chiamava così, ed io lo strinsi maggiormente a me: mi parve che questo indebolisse la rete che Decuman stava intessendo intorno alla mia mente.
— È solo una supposizione — spiegai, — ma direi che si tratta di un'accademia di maghi... di quei cultisti che praticano quelle che essi ritengono arti segrete. Si suppone che abbiano seguaci dovunque, anche se io ne dubito, e che siano molto crudeli. Hai sentito parlare del Nuovo Sole, Severian? È l'uomo che i profeti dicono verrà a ricacciare indietro i ghiacci ed a porre rimedio alle ingiustizie del mondo.
— Egli ucciderà Abaia — rispose il bambino, con mia sorpresa.
— Sì, si suppone che debba fare anche questo, e molte altre cose. Si dice che avesse già cominciato a farlo una volta, molto tempo fa. Lo sapevi, questo?
Il bambino scosse il capo.
— Allora, il suo scopo era quello di stabilire la pace fra l'umanità e l'Increato, ed era chiamato il Conciliatore. Si è lasciato alle spalle una famosa reliquia, una gemma chiamata l'Artiglio. — Mentre parlavo, portai la mano al petto e strinsi la gemma, e, sebbene non allentassi i legacci del morbido sacchetto che la conteneva, ne potei ugualmente sentire i contorni. Nel momento stesso in cui la toccai, l'invisibile rete che Decuman aveva intessuto intorno alla mia mente si dissolse quasi completamente. Non so immaginare per quale motivo avessi supposto per così tanto tempo che l'Artiglio dovesse essere estratto dal suo nascondiglio per avere efficacia: quella notte scoprii che non era così, e risi.
Per un momento, Decuman interruppe la sua cantilena ed aprì gli occhi.
— Non hai più paura? — Il piccolo Severian si strinse maggiormente a me.
— No. Si vedeva che avevo paura? — chiesi, ed egli annuì con aria solenne.
— Quello che stavo per dirti è che l'esistenza di quella reliquia sembra aver suggerito ad alcuni popoli l'idea che il Conciliatore usasse Artigli come armi. Ho spesso dubitato della sua esistenza, ma se una simile persona è mai vissuta davvero, sono certo che ha usato le sue armi in prevalenza contro se stesso. Capisci cosa sto dicendo?
Dubito che capisse, ma annuì ugualmente.
— Quando eravamo sul sentiero, abbiamo trovato un incantesimo contro la venuta del Nuovo Sole. Gli uomini colorati come alberi, che suppongo siano quelli che hanno superato questa prova, usano artigli d'acciaio. Io credo che vogliano ritardare l'avvento del Nuoyo Sole in modo da poter prendere il suo posto e forse usurpare i suoi poteri. Se...
All'esterno, qualcuno urlò.
XXII
LE PENDICI DELLA MONTAGNA
La mia risata aveva infranto la concentrazione di Decuman, anche se solo per un attimo, ma il grido proveniente dall'esterno non ebbe questo effetto. La rete che era caduta in pezzi quando avevo stretto l'Artiglio, si stava ricreando, più lentamente, ma con maglie più strette.
Si ha sempre la tentazione di dire che certi sentimenti sono indescrivibili, ma raramente è vero. Ebbi l'impressione di essere sospeso, nudo, fra due soli senzienti, ed ero in qualche modo consapevole che quei soli erano i due emisferi del cervello di Decuman. Ero immerso nella luce, ma essa era il bagliore di una fornace, che mi consumava ed in qualche modo m'immobilizzava. Sotto quella luce, nulla mi sembrava importante, ed io stesso mi sentivo estremamente minuscolo e disprezzabile.
In questo senso, la mia concentrazione rimase intatta, anche se ero vagamente consapevole del fatto che quell'urlo segnalava una possibile opportunità a mio favore. Molto più tardi di quanto avrei dovuto, forse dopo aver tratto una dozzina di respiri, mi alzai barcollando in piedi.
Qualcosa stava valicando la porta, ed il mio primo pensiero, per quanto assurdo possa sembrare, fu che si trattasse di fango... che una convulsione avesse scosso Urth e che la stanza stesse per essere inondata da quello che era stato il fondo di una fetida palude. La cosa fluttuò oltre lo stipite, cieca e soffice, e, contemporaneamente, un'altra torcia si spense. Ben presto, la cosa fu sul punto di toccare Decuman, ed io gridai per avvertirlo.
Non so se fu per il tocco della creatura o per il suono della mia voce, ma Decuman indietreggiò, ed io fui consapevole che l'incantesimo si era spezzato ancora una volta, e che la sua rete era di nuovo in pezzi. I due soli che mi avevano bloccato si allontanarono e svanirono, ed io ebbi l'impressione di espandermi e di ruotare in una direzione che non era né su né giù, né a sinistra né a destra, fino a ritrovarmi nella sala del confronto, con il piccolo Severian che mi si aggrappava al mantello.
In quel momento la mano di Decuman saettò, armata di artigli che non avevo neppure notato egli possedesse. Qualsiasi cosa fosse quella creatura nera e quasi informe, il suo fianco si tagliò come grasso e ne scaturì sangue che era anch'esso nero, o forse verde scuro. Quello di Decuman era rosso, e, quando la creatura fluì su di lui, parve sciogliere la sua pelle come cera.
Sollevai il ragazzo e gli dissi di aggrapparsi al mio collo e di stringermi le gambe intorno alla vita; quindi saltai con tutta la mia forza, ma, sebbene le mie dita sfiorassero un palo del soffitto, non riuscii ad afferrarlo. La creatura si stava girando, ciecamente, ma mossa da uno scopo. Forse cacciava servendosi dell'olfatto, ma io ho sempre pensato che fosse guidata dal pensiero... il che spiegherebbe come fosse stata tanto lenta a trovarmi nell'Anticamera, dove avevo dormito e sognato Thecla, ed invece così rapida in quella sala dei confronti, quando la mente di Decuman era focalizzata sulla mia.
Balzai di nuovo, ma questa volta mancai il palo di almeno una spanna.
Per prendere una delle torce rimaste, dovevo correre verso la creatura: lo feci ed afferrai la torcia, che però si spense mentre la sfilavo dal sostegno.
Tenendomi all'anello, balzai una terza volta, sostenendo l'impulso delle gambe con la forza del braccio, e questa volta riuscii ad afferrare un palo liscio e stretto con la mano sinistra. Il palo si piegò sotto il mio peso, ma potei issarmi, con il ragazzo sulle spalle, fino a puntare un piede contro l'anello della torcia.
Sotto di me, la nera creatura informe indietreggiò, cadde e si risollevò. Tenendomi sempre stretto al palo, estrassi Terminus Est: la lama tagliò profondamente la carne melmosa, ma era appena uscita dalla ferita che questa parve richiudersi e guarire. Allora rivolsi la spada verso la copertura del tetto, un espediente che riconosco di aver copiato da Agia. Il tetto era spesso, formato da foglie di jungla legate con fibre resistenti. I miei primi colpi frenetici parvero avere ben poco effetto, ma la terza volta ne cadde una grossa porzione, che colpì la torcia rimanente, spegnendola e facendo scaturire una lingua di fiamma. Volteggiai attraverso l'apertura ed uscii nel buio.
Balzando giù alla cieca, con la tagliente lama sguainata, come feci, è un miracolo che non uccidessi il ragazzo e me stesso. Quando toccai terra lasciai andare la spada ed il ragazzo, e caddi sulle ginocchia. Il bagliore rosso che scaturiva dal tetto si stava facendo sempre più violento ad ogni momento che passava. Sentii il bambino piangere e lo chiamai, temendo che scappasse ancora, poi lo tirai in piedi con una mano, afferrai Terminus Est con l'altra e mi misi a correre.
Per il resto di quella nottata fuggimmo ciecamente nella giungla, e, nei limiti del possibile, cercai di dirigere la nostra fuga verso monte... non solo perché per dirigerci a nord dovevamo salire, ma anche perché sapevo che così era meno probabile cadere in qualche precipizio... Quando si fece mattino, eravamo ancora nella giungla, senza avere un'idea più chiara di dove ci trovassimo. A quel punto presi in braccio il bambino, che si addormentò.
Dopo un altro turno di guardia, non ci fu più alcun dubbio che il terreno stesse salendo rapidamente davanti a noi, ed alla fine arrivammo ad una cortina di viticci simile a quella attraverso cui avevo aperto un varco, appena il giorno precedente. Proprio nel momento in cui stavo per cercare di deporre a terra il ragazzino senza destarlo, in modo da poter prendere la spada, vidi fluire la vivida luce del sole attraverso un'apertura alla mia sinistra. Mi avvicinai più in fretta che potevo, quasi correndo, e la oltrepassai, emergendo su un roccioso pendio cosparso di erba secca e di cespugli. Qualche altro passo mi portò fino ad un limpido ruscello che cantava sulle rocce... senza ombra di dubbio lo stesso accanto al quale il ragazzo ed io avevamo dormito due notti prima. Senza sapere e senza curarmi se la creatura informe fosse ancora sulle mie tracce, mi sdraiai accanto ad esso e mi addormentai.
Ero in un labirinto, simile, eppure al contempo dissimile, al cupo sotterraneo dei maghi. Qui i corridoi erano più ampi, e talvolta sembravano gallerie altrettanto imponenti quanto quelle della Casa Assoluta. Alcune, erano ricoperte di specchi, nei quali vidi me stesso, con il manto lacero ed il volto sparuto, e Thecla, semitrasparente e vestita con un adorabile abito lungo, vicina a me. I pianeti passavano sibilando lungo oblique, curve traiettorie che soltanto essi potevano vedere. L'azzurra Urth portava con sé la verde Luna come un neonato, ma non la toccava. Il rosso Verthandi divenne Decuman, con la pelle divorata, che ruotava nel suo sangue.
Fuggii e caddi, stirandomi tutti gli arti. Per un attimo, vidi le stelle reali nel cielo inondato di sole, ma il sonno mi attrasse con una forza irresistibile come la gravità. Camminavo accanto ad una parete di vetro, e, dall'altra parte, vidi il bambino, che fuggiva spaventato, vestito con la stessa consunta camicia grigia che io avevo indossato quando ero apprendista, correndo dal quarto livello, credo, all'Atrio del Tempo. Dorcas e Jolenta si avvicinarono, mano nella mano, sorridendosi a vicenda, e non mi videro. Poi alcuni autoctoni, dalla pelle color rame e dalle gambe storte, adorni di piume e gioielli, presero a danzare dietro il loro shamano, sotto la pioggia, e l'ondina cominciò a nuotare nell'aria, vasta come una nube, coprendo la luce del sole.
Mi svegliai. Una pioggia leggera mi batteva sulla faccia, e, accanto a me, il piccolo Severian dormiva immobile. Lo avvolsi meglio che potevo nel mio mantello e lo trasportai nuovamente attraverso la lacerazione nella cortina di viticci, al di là della quale, fra gli alberi dallo spesso tronco, la pioggia non penetrava quasi affatto. Là, ci sdraiammo e dormimmo ancora; questa volta non feci alcun sogno, e, al mio risveglio, scoprii che avevamo dormito un giorno ed una notte e che la pallida luce dell'alba si stava stendendo dovunque.
Il ragazzino era già sveglio, e stava gironzolando fra i tronchi degli alberi; mi fece vedere dove scorreva il ruscello all'interno della foresta, ed io mi lavai e mi feci la barba meglio che potevo senza acqua calda, cosa che non avevo più fatto dal primo pomeriggio trascorso nella casetta sulla montagna. Poi, ritrovato il sentiero familiare, ci dirigemmo ancora a nord.
— Non incontreremo gli uomini colorati come alberi? — mi chiese il bambino, ed io gli raccomandai di non spaventarsi e di non fuggire... perché mi sarei occupato io degli uomini colorati come alberi. La verità era che ero molto più preoccupato a causa di Hethor e della creatura che questi aveva lanciato sulle mie tracce: se non era perita nell'incendio, poteva darsi che stesse avanzando verso di noi, perché, anche se mi era parso un animale che rifuggiva dalla luce del sole, nella giungla la luce era pressocché crepuscolare.
Solo un uomo dipinto apparve sul sentiero, ma non per sbarrarci il passo, bensì per prostrarsi al suolo. Fui tentato di ucciderlo e di farla finita, perché, sebbene ci fosse stato insegnato che dovevamo uccidere o mutilare solo dietro espresso ordine di un giudice, quel tipo di addestramento si era indebolito sempre più in me man mano che mi allontanavo da Nessus e mi avvicinavo alla guerra ed alle montagne selvagge. Alcuni mistici sostengono che i vapori emananti dai campi di battaglia hanno effetto sul cervello umano, anche ad una grande distanza sottovento, e forse era proprio così. Comunque, feci alzare quell'uomo e gli chiesi semplicemente di farsi da parte.
— Grande Mago — mi disse questi, — che ne hai fatto del buio strisciante?
— L'ho rimandato nell'abisso da cui l'ho chiamato — replicai, perché, dal momento che non avevo ancora incontrato la creatura, ero quasi certo che fosse morta o che Hethor l'avesse richiamata.
— Cinque di noi hanno trasmigrato.
— Allora i vostri poteri sono più grandi di quanto credessi. Quell'essere ha ucciso centinaia di persone in una sola notte.
Non ero affatto certo che non ci avrebbe attaccato quando gli avessimo voltato le spalle, ma non lo fece. Il sentiero che il giorno prima avevo percorso da prigioniero era ora deserto, e nessun'altra guardia apparve a fermarci, mentre alcune delle strisce di tessuto rosso erano state strappate via e calpestate, anche se non riuscivo ad immaginarne il perché. Vidi inoltre molte impronte di piedi sul sentiero che in precedenza era stato liscio (forse perché raschiato con un rastrello).
— Cosa stai cercando? — mi chiese il ragazzino.
— Il fango dell'animale davanti al quale siamo fuggiti la notte scorsa — spiegai, tenendo la voce bassa perché non avevo modo di sapere se c'erano ascoltatori nascosti fra gli alberi.
— E lo vedi? — insistette. Scossi il capo, e per qualche tempo il bambino rimase silenzioso. Poi disse: — Grande Severian, da dove veniva quella bestia?
— Ti rammenti la storia? Da una delle montagne al di là di Urth.
— Là dove viveva Vento di Primavera?
— Non credo si trattasse della stessa montagna.
— E come è arrivato qui?
— Lo ha portato un uomo cattivo. Ora taci per un po', piccolo Severian.
Se fui brusco con il ragazzo, fu solo perché anch'io ero tormentato dallo stesso pensiero. Era chiaro che Hethor doveva aver trasportato di nascosto i suoi animali sulla nave su cui si era imbarcato, e, quando mi aveva seguito fuori da Nessus, poteva aver portato le notule in un qualche piccolo contenitore sigillato, nascosto sulla sua persona... per quanto terribili, quelle creature non erano più spesse di un pezzo di tessuto, come Jonas ben sapeva.
Ma, come aveva portato la creatura che avevo visto nella sala dei confronti? Essa era apparsa anche nell'Anticamera della Casa Assoluta, dopo che Hethor vi era giunto, ma come? Aveva seguito Hethor ed Agia come un cane mentre viaggiavano verso nord fino a Thrax? Cercai di ricordare la bestia così come l'avevo vista quando aveva ucciso Decuman, e tentai di valutarne il peso: doveva essere stata pesante come parecchi uomini, forse addirittura come un destriero, e certo sarebbe stato necessario un grosso carro per nasconderla e trasportarla. Hethor aveva forse guidato un carro del genere attraverso queste montagne? Non riuscivo a crederlo. E quel viscido orrore che avevamo visto, aveva forse diviso un simile carro con la salamandra che era perita a Thrax? Non potevo credere neppure a questo.
Il villaggio sembrava deserto quando lo raggiungemmo. Alcune parti della sala dei confronti erano ancora in piedi e fumavano, ed io cercai invano fra esse i resti del corpo di Decuman, anche se trovai il suo bastone, bruciato a metà. Il suo interno era cavo, e, dalla uniformità delle pareti, sospettai che quel bastone, senza l'impugnatura, servisse anche da cerbottana per lanciare dardi velenosi: senza dubbio, Decuman se ne sarebbe servito se mi fossi dimostrato eccessivamente resistente ai suoi incantesimi.
Il ragazzino dovette dedurre i miei pensieri dall'espressione del mio volto e dalla direzione del mio sguardo, perché osservò:
— Quell'uomo era un vero mago, no? Ti aveva quasi stregato. — Annuii, e lui aggiunse: — Tu avevi detto che non era reale.
— Sotto alcuni aspetti, piccolo Severian, io non ne so molto più di te. Non pensavo che fosse vero, perché avevo visto troppi imbrogli... la porta segreta nella stanza sotterranea dove mi avevano rinchiuso, il modo in cui ti avevano fatto apparire da sotto il mantello di quell'altro uomo. Eppure, ci sono cose oscure dovunque, e suppongo che coloro che le cercano strenuamente non possano evitare di trovarne qualcuna. Allora essi diventano, come tu hai detto, veri maghi.
— Potrebbero dare ordini a chiunque, se conoscessero la vera magia.
A quelle parole, mi limitai a scuotere soltanto il capo, ma vi ho riflettuto molto da allora, e mi pare che esistano due obiezioni all'idea del ragazzo, per quanto essa possa apparire maggiormente convincente se esposta in termini più maturi.
La prima obiezione consiste nel fatto che i maghi trasmettono ben poco del loro sapere da una generazione all'altra. Io ero stato addestrato in quella che poteva essere definita come la più fondamentale fra le scienze applicate, e quindi sapevo bene che il progresso di una scienza dipende molto meno dalle considerazioni teoretiche o dall'indagine sistematica di quanto si creda comunemente, e si fondi invece soprattutto sulla trasmissione di informazioni affidabili, ottenute per caso o per ragionamento, da parte di un gruppo di uomini ai loro successori. La natura di coloro che cercano il sapere oscuro è tale da indurii a portare con sé quel che hanno appreso, anche nella morte, oppure a trasmetterlo così celato ed offuscato dietro menzogne protettive, da renderlo di ben scarso valore. A volte, si sente parlare di qualcuno che ha trasmesso bene il suo sapere all'innamorata o ai figli, ma la natura di questa gente è tale che raramente hanno l'una o gli altri, e può anche darsi che averli indebolisca il loro potere.
La seconda obiezione sta nel fatto che l'esistenza stessa di simili poteri postula l'esistenza di una forza contraria. Noi chiamiamo oscuri i poteri della prima categoria, anche se essi si possono servire di una sorta di luce mortale, come aveva fatto Decuman; e chiamiamo luminosi quelli della seconda categoria, anche se suppongo che talvolta anch'essi si servano dell'oscurità come un uomo onesto che deve comunque tirare le tende per andare a dormire. Eppure, esiste qualcosa di vero in questa contrapposizione di luce e di oscurità, perché, così parlando, si dimostra chiaramente come uno dei due implichi l'altro. Il racconto che avevo letto al piccolo Severian diceva che l'universo non era altro che una lunga parola dell'Increato, ed allora noi siamo le sillabe di quella parola. Ma il pronunciare una qualsiasi parola è inutile a meno che ci siano altre parole, parole non pronunciate. Se una bestia ha un unico verso, quel verso non dice nulla, ed anche il vento ha una moltitudine di voci, in modo che coloro che siedono al riparo le possano udire e possano capire se è violento o mite. I poteri che noi chiamiamo oscuri mi sembrano le parole che l'Increato non ha pronunciato, se poi l'Increato esiste davvero; e quelle parole devono rimanere in uno stato di quasi esistenza, se l'altro mondo, quello delle parole pronunciate, deve essere distinto da esse. Quello che non viene detto può essere importante... ma quel che è detto è più importante ancora. Per questo la mia consapevolezza dell'esistenza dell'Artiglio era stata quasi sufficiente a spezzare l'incantesimo di Decuman.
E se coloro che cercano le cose oscure le trovano, non possono anche coloro che cercano le cose luminose riuscire a trovarle? E questi ultimi non saranno maggiormente propensi a tramandare il loro sapere? Così le Pellegrine avevano custodito l'Artiglio da una generazione all'altra, e, pensando a questo, io divenni ancor più fermo nella mia decisione di restituirlo a loro, perché, se anche non lo avessi saputo prima, la notte in cui avevo affrontato l'alzabo mi aveva fatto comprendere che ero solo carne, e che, con il tempo, sarei certamente morto, e forse anche presto.
Poiché la montagna cui ci stavamo avvicinando era rivolta a nord e quindi proiettava la sua ombra sulla sella coperta di giungla, nessun viticcio cresceva da quella parte. Il verde pallido delle foglie si fece ancora più tenue, ed il numero di alberi morti aumentò, anche se quegli alberi erano più piccoli; il tetto di fogliame sotto cui avevamo camminato tutto il giorno si aprì sempre più di sovente, fino a svanire del tutto.
Poi la montagna si erse dinnanzi a noi, troppo vicina perché potessimo vedere il volto dell'uomo intagliato in essa. Grandi pendii discendevano da un banco di nubi, ed io sapevo che non erano altro che i drappeggi dell'abito di quell'uomo: quante volte doveva essersi alzato dal letto per indossarlo, forse senza riflettere che esso sarebbe stato qui immortalato per ere, tanto immenso da sfuggire quasi alla vista della razza umana!
XXIII
LA CITTÀ MALEDETTA
Verso mezzogiorno del giorno successivo, trovammo ancora l'acqua, la sola che noi due eravamo destinati ad assaporare su quella montagna. Rimanevano ormai poche strisce della carne secca che Casdoe mi aveva dato, e le divisi fra noi, dopo di che bevemmo al ruscello, che non era altro che un rivoletto delle dimensioni del pollice di un uomo. Questo mi sembrava strano, poiché avevo visto tanta neve sulla testa e sulle spalle della montagna, ma più tardi avrei avuto modo di scoprire che i pendii sottostanti ai campi innevati, dove la neve avrebbe potuto depositarsi per sciogliersi con l'arrivo della primavera, venivano mantenuti sgombri da un forte vento, mentre più in alto gli strati nevosi si accumulavano da secoli.
Le nostre coperte erano umide di rugiada, e le stendemmo sulle pietre ad asciugare, e, anche senza sole, il vento secco che sferzava la montagna le asciugò in un turno di guardia circa. Sapevo che avremmo trascorso la prossima notte in alto, sulle pendici montane, più o meno come io avevo trascorso la mia prima notte dopo la fuga da Thrax, ma, in qualche modo, questa consapevolezza non era in grado di deprimermi. Mi sembrava di essere stato insozzato, e pensavo che la fredda aria montana mi avrebbe ripulito, e, per qualche tempo, quella sensazione rimase nel mio intimo quasi inavvertita ed insondata; poi, quando iniziammo la salita vera e propria, mi resi conto che quello che mi turbava soprattutto era il ricordo delle menzogne che avevo detto ai maghi, pretendendo di essere come loro in grado di comandare grandi poteri e di essere a conoscenza d'immensi segreti. Quelle menzogne erano state del tutto giustificate... mi avevano aiutato a salvare la mia vita e quella del piccolo Severian; nondimeno, mi sentivo ugualmente un uomo inferiore per aver fatto ricorso ad esse. Il Maestro Gurloes, che ero arrivato ad odiare prima di dover abbandonare la corporazione, aveva mentito molto di frequente, ed ora io non avrei saputo dire con certezza se avevo odiato il Maestro perché mentiva o il fatto di aver mentito perché lui lo faceva.
Eppure, il Maestro Gurloes aveva avuto una ragione valida quanto la mia, e forse addirittura migliore: aveva mentito per difendere la corporazione e migliorarne le fortune, fornendo a svariati funzionari ed ufficiali resoconti esagerati del nostro lavoro e, quando era necessario, nascondendo i nostri errori. Nel far questo, lui aveva certamente migliorato la sua posizione, in quanto capo effettivo della corporazione, ma nel contempo aveva migliorato anche la mia, quella di Drotte, di Roche, di Eata e di tutti gli altri apprendisti ed artigiani che avrebbero un giorno ereditato la sua carica. Se il Maestro fosse stato davvero l'uomo semplice e brutale che amava far credere a tutti di essere, avrei potuto adesso avere la certezza che la sua disonestà era intesa a suo esclusivo tornaconto; ma io sapevo che non era così, e che forse, per anni, lui si era visto come io ora vedevo me stesso.
Tuttavia, non potevo essere certo di aver agito per salvare il piccolo Severian. Quando era fuggito, ed io avevo consegnato la spada, forse sarebbe stato per lui più vantaggioso se io avessi invece combattuto... mentre la mia persona era stata quella al cui immediato vantaggio era andata la mia docile resa, poiché, se li avessi affrontati, avrei potuto facilmente essere ucciso. Più tardi, quando ero fuggito, ero certo tornato tanto per recuperare Terminus Est quanto per riprendere il ragazzino: per riprendere la spada ero tornato nella miniera degli uomini-scimmia, quando il bambino non era con me, e, senza essa, sarei divenuto un semplice vagabondo.
Un turno di guardia dopo aver rimuginato su questi pensieri, stavo scalando una superficie rocciosa con la spada ed il ragazzo sulla schiena, e senza una maggiore chiarezza su quanto m'importasse di ciascuno dei due di quanta ne avessi posseduta prima. Per fortuna, ero piuttosto fresco, non dovevo affrontare una salita difficile e, una volta in cima, c'imbattemmo in un'antica autostrada.
Per quanto avessi camminato in molti posti strani, non ne ho mai attraversato uno che mi facesse provare una maggiore sensazione di anomalia. Alla nostra sinistra, a non più di venti passi di distanza, potevo vedere la fine di quell'ampia strada là dove una frana aveva portato via la sua estremità più bassa. Davanti a noi, essa si stendeva altrettanto perfetta come il giorno in cui era stata completata, un liscio nastro di pietra nera che saliva tortuoso verso quell'immensa figura il cui volto era nascosto al disopra delle nuvole.
Quando lo misi a terra, il bambino si aggrappò alla mia mano.
— La mamma ha detto che non potevamo usare le strade per via dei soldati.
— Tua madre aveva ragione — replicai, — ma lei stava scendendo a valle, dove si trovano i soldati. Senza dubbio c'erano soldati su questa strada, una volta, ma sono morti parecchio tempo prima che spuntasse anche solo il seme del più grande degli alberi che hai visto nella giungla.
Il bambino aveva freddo, ed io gli diedi una coperta e gli spiegai come avvolgersela intorno alle spalle e tenerla chiusa a guisa di mantello. Se qualcuno ci avesse visti allora, avrebbe avuto l'impressione di scorgere una piccola figura grigia seguita da un'ombra sproporzionata.
Penetrammo in un banco di nebbia, ed io pensai che era strano trovare la nebbia tanto in alto, e fu soltanto dopo che l'avemmo superata e potemmo osservare dall'alto la sua superficie illuminata dal sole che mi resi conto che in effetti si era trattato di una di quelle nubi che mi erano parse tanto remote quando le avevo guardate dalla sella.
Eppure, quella sella di giungla, ora così al disotto di noi, si trovava indubbiamente parecchie migliaia di cubiti al disopra di Nessus e del basso corso del Gyoll. Pensai allora a quanto dovevo essermi spinto lontano, se potevano esistere giungle ad una simile altitudine... dovevo essere quasi alla cintura del mondo, dove era sempre estate e solo l'altitudine procurava qualche variazione nel clima. Se avessi viaggiato ad ovest rispetto a quelle montagne, allora, stando agli insegnamenti del Maestro Palaemon, mi sarei trovato in una giungla tanto pestilenziale da far sembrare al confronto un paradiso quella che avevo appena lasciato, una giungla costiera dal calore tremendo e dagli insetti letali; eppure, anche là avrei visto tracce di morte, perché, sebbene quella giungla ricevesse una porzione di calore solare maggiore di quella di qualsiasi altra zona di Urth, quel calore era inferiore al calore ricevuto in passato, e, proprio come il ghiaccio avanzava da sud e la vegetazione della zona temperata si ritraeva dinnanzi ad esso, così gli alberi e le altre piante dei tropici morivano per lasciare spazio a quel nuovo tipo di vegetazione.
Mentre io guardavo in giù verso la nuvola, il bambino proseguì, e poi, voltandosi verso di me con occhi brillanti, mi chiese:
— Chi ha fatto questa strada?
— Indubbiamente gli operai che hanno intagliato la montagna. Dovevano disporre di grandi energie ai loro ordini e di macchine più potenti di qualsiasi strumento a noi noto. Peraltro, dovevano pur sempre portar via in qualche modo gli scarti. Migliaia di carri e carretti devono aver percorso questa strada, un tempo. — Eppure, mi chiesi se fosse vero, perché le ruote di ferro di simili veicoli incidevano perfino il duro selciato delle strade di Nessus e di Thrax, mentre quella strada era liscia come quelle usate per le processioni: di certo, pensai, solo il sole ed il vento l'avevano percorsa.
— Guarda, grande Severian! Vedi la mano?
Il ragazzo stava indicando uno sperone della montagna molto più in alto di noi. Piegai il collo, ma, per un momento, non vidi nulla se non quello che avevo già visto prima: un lungo promontorio d'inospitale roccia grigia. Poi, la luce del sole brillò su qualcosa che si trovava vicino all'estremità della sporgenza, e quello mi parve il bagliore inconfondibile dell'oro. Quando vidi il bagliore, scoprii anche che l'oro era quello di un anello, e, sotto di esso, scorsi il pollice congelato nella pietra al disotto della roccia, un pollice lungo forse cento passi con dita alte come colline al disopra di esso. Non avevamo denaro, ed io sapevo quanto esso ci sarebbe stato utile quando alla fine fossimo stati costretti a far ritorno nelle terre abitate. Se ero ancora ricercato, un po' d'oro avrebbe potuto persuadere i cercatori a guardare dall'altra parte, ed inoltre avrebbe potuto permettermi di acquistare per il giovane Severian la posizione di apprendista in qualche corporazione importante, perché era evidente che il bambino non poteva continuare a viaggiare con me. Mi sembrava estremamente probabile che il grosso anello fosse formato solo da una patina d'oro stesa sulla pietra, ma, anche così, una quantità tanto grande di lamina d'oro, se poteva essere staccata ed arrotolata, avrebbe fornito una somma considerevole. Inoltre, pur sforzandomi di allontanare l'idea, mi trovai a chiedermi se era possibile che una semplice lamina d'oro avesse potuto resistere al suo posto per così tanti secoli: non avrebbe dovuto invece staccarsi e cadere molto tempo prima? Se fosse stato d'oro solido, quell'anello sarebbe valso una fortuna, ma tutte le fortune di Urth non sarebbero state sufficienti alla costruzione di quella possente immagine, per cui chi ne aveva ordinato l'erezione doveva aver posseduto ricchezze incalcolabili. Anche se quell'anello non era solido oro fino al punto in cui cominciava il dito, poteva esserci comunque uno strato di metallo piuttosto spesso.
Mentre riflettevo su queste cose, continuavo a salire, e le mie lunghe gambe ebbero ben presto la meglio su quelle più corte del ragazzino. In certi tratti, la strada si faceva tanto ripida da rendermi impossibile quasi il credere che veicoli carichi di pietre avessero potuto percorrerla. Per due volte, incontrammo alcune fessure, una tanto ampia che fui costretto a gettare il bambino dall'altra parte e poi saltare io stesso. Speravo di trovare un po' d'acqua prima che fossimo costretti a fermarci, ma non ne trovai, e, quando scese la notte, non avemmo rifugio migliore che una crepa nella pietra, dentro alla quale ci avvolgemmo nelle coperte e nel mio mantello, e dormimmo come meglio potevamo.
Al mattino, eravamo entrambi assetati, e, anche se sapevo che la stagione delle piogge non sarebbe giunta prima dell'autunno, dissi al bambino che pensavo che sarebbe piovuto, e ci rimettemmo in cammino di buon animo. Più tardi, il piccolo Severian mi mostrò come il tenere un sassolino in bocca servisse a placare un po' la sete: era un trucco di montagna che io non conoscevo. Il vento era adesso più forte di prima, e cominciavo ad avvertire la rarefazione dell'aria; di tanto in tanto, la strada svoltava in modo da permetterci di ricevere qualche raggio di sole.
Con le sue torsioni, la strada si allontanava sempre più dall'anello, ed alla fine ci ritrovammo completamente in ombra, dove non potevamo più vedere l'anello, vicino alle ginocchia della figura seduta: dinnanzi a noi c'era un'ultima ripida salita, tanto erta che pensai a quanto sarebbero stati comodi degli scalini. E poi, in un punto dove sembravano fluttuare nell'aria limpida, apparvero alcune snelle torri. Il bambino gridò il nome di Thrax con tanta felicità da farmi comprendere che sua madre doveva avergli parlato di quella città e doveva avergli detto, quando lei ed il vecchio lo avevano portato via dalla casa dov'era nato, che lo avrebbe condotto proprio a Thrax.
— No — replicai, — non è Thrax. Somiglia piuttosto alla mia Cittadella... con la nostra Torre di Matachin, e la Torre delle Streghe, e la Torre dell'Orso e la Torre della Campana. — Il ragazzino mi fissò con gli occhi spalancati, ed io aggiunsi: — No, naturalmente non è neppure quella. Solo, io sono stato a Thrax, e Thrax è una città di pietra, mentre quelle torri sono di metallo, come lo erano le nostre.
— Hanno gli occhi — fece il piccolo Severian.
E così era. Inizialmente pensai che la mia immaginazione mi stesse ingannando, soprattutto perché non tutte le torri li avevano, ma alla fine mi resi conto che alcune erano rivolte verso di noi ed altre no, e che quelle torri non avevano solo occhi, ma anche spalle e braccia. Esse erano in realtà figure metalliche di catafratti, guerrieri coperti d'armatura dalla testa ai piedi.
— Non è una vera città — spiegai al ragazzo. — Quello che abbiamo trovato sono le guardie dell'Autarca, che attendono nel suo grembo per distruggere coloro che potrebbero fargli del male.
— Ci colpiranno?
— È un pensiero spaventoso, vero? Potrebbero schiacciare sia te che me sotto un piede come fossimo topi, ma io sono certo che non lo faranno: sono solo statue, guardie spirituali lasciate qui come ricordo dei poteri di quell'Autarca.
— Ci sono anche grosse case — osservò il bambino.
Aveva ragione. Gli edifici arrivavano a stento all'altezza della vita di quei colossi, cosicché in un primo tempo non li avevamo notati. Questo particolare mi fece ancora una volta tornare in mente la nostra Cittadella, dove costruzioni certo non abbastanza alte da poter sfidare le stelle si mescolavano alle torri. Forse fu soltanto un effetto dell'aria rarefatta, ma ebbi l'impressione di vedere quegli uomini di metallo sollevarsi lentamente, poi con sempre maggiore rapidità, alzando le mani verso il cielo per tuffarsi in esso come noi ci tuffavamo nelle acque scure della cisterna alla luce delle torce.
Anche se i miei stivali dovevano stridere sulla roccia spazzata dal vento, non ho alcun ricordo di un tale suono. Forse, esso si perdeva nella vastità delle cime montane, cosicché ci avvicinammo a quelle figure in piedi altrettanto silenziosamente come se camminassimo sul muschio. Le nostre ombre, che appena erano apparse si trovavano stese dietro di noi ed alla nostra sinistra, erano adesso ridotte a chiazze intorno ai piedi; notai che ora potevo vedere gli occhi di tutte le figure, e mi dissi che all'inizio dovevo averne trascurati alcuni, anche se il sole li faceva brillare.
Alla fine, imboccammo un sentiero che passava fra quei colossi e fra gli edifici che li attorniavano. Mi ero aspettato di trovare quegli edifici in rovina, come era stato nella città dimenticata di Apu-Punchau, ed invece essi erano chiusi, segreti e silenziosi, ed avrebbero potuto essere stati costruiti solo pochi anni prima. Nessun tetto era crollato, nessun viticcio aveva rimosso le squadrate pietre grige delle mura. Gli edifici erano privi di finestre, e la loro struttura non suggeriva l'idea che fossero templi, fortezze, tombe o altri tipi di costruzioni a me familiari. Erano completamente privi di ornamenti e di grazia, eppure erano stati costruiti in modo eccellente, e le loro diverse forme sembravano indicare diverse funzioni. Le figure lucenti si levavano fra di essi come se fossero state arrestate al loro posto da un qualche improvviso vento raggelante, e non come se fossero stati monumenti.
Scelsi un edificio e dissi al bambino che vi saremmo entrati e che, se fossimo stati fortunati, avremmo trovato acqua al suo interno e forse perfino cibo conservato, ma le mie parole si dimostrarono una sciocca vanteria. Le porte erano solide come le pareti, il tetto resistente come le fondamenta, e, anche se avessi avuto un'ascia, non credo che sarei riuscito ad aprirmi un varco con la forza, e non osavo servirmi di Terminus Est. Sprecammo parecchi turni di guardia alla ricerca di qualche punto debole nella struttura, ed il secondo ed il terzo edificio che esaminammo si rivelarono altrettanto difficili da aprire quanto il primo.
— C'è una casa rotonda laggiù — disse infine il bambino. — Andrò a dare un'occhiata per conto tuo.
Gli permisi di andare avanti perché ero certo che nulla potesse fargli male in quel luogo deserto, ed egli fu presto di ritorno.
— La porta è aperta! — annunciò.
XXIV
IL CADAVERE
Non ho mai scoperto a quale uso fossero destinati quegli altri edifici, e non compresi neppure a cosa servisse questo, che era circolare e coperto da una cupola. Le sue pareti erano di metallo... non il lucido metallo scuro che copriva le nostre torri della Cittadella, ma una qualche lega che sembrava argento lucidato.
Quel lucente edificio sorgeva su una sorta di piedistallo munito di scalini, ed io mi meravigliai della cosa, dal momento che le grandi immagini dei catafratti nelle loro antiche armature si ergevano invece semplicemente sulla strada. C'erano cinque porte lungo la circonferenza della costruzione (poiché facemmo un giro completo prima di penetrarvi) ed esse erano tutte aperte. Osservandole da vicino ed esaminando il suolo dinnanzi ad esse, cercai di determinare se erano aperte da molto tempo, ma a quell'altitudine c'era ben poca polvere, cosicché non potei esserne del tutto certo. Quando avemmo terminato la nostra ispezione, raccomandai al bambino di lasciarmi passare per primo ed entrai.
Non accadde nulla. Anche quando il ragazzo mi seguì, le porte non si chiusero, nessun nemico ci assalì, nessun lampo d'energia colorò l'aria ed il pavimento rimase saldo sotto i nostri piedi. Nondimeno, avevo la sensazione che eravamo chissà come entrati in una trappola, che fuori, sulla montagna, eravamo liberi, per quanto affamati ed assetati, mentre qui non lo eravamo più. Credo che mi sarei voltato e sarei fuggito se il bambino non fosse stato con me, ma, così come stavano le cose, non volevo apparire spaventato o superstizioso, e mi sentivo obbligato a tentare di trovare cibo ed acqua.
In quell'edificio c'erano molti congegni cui non saprei dare un nome: non erano pezzi di mobilio, né casse, e neppure macchine nel senso in cui io intendevo quel termine. Molti di essi presentavano una strana angolazione, e ne vidi alcuni che sembravano avere nicchie in cui era possibile sedersi, anche se chi vi si fosse seduto sarebbe rimasto rattrappito e si sarebbe trovato di fronte ad una qualche parte del congegno invece che ai suoi compagni. Altri apparecchi contenevano alcove in cui forse un tempo qualcuno aveva riposato.
Quei congegni si trovavano ai lati di corridoi, ampi corridoi che andavano verso il centro della struttura, dritti come i raggi di una ruota. Guardando lungo quello da cui eravamo entrati, distinsi in lontananza qualcosa di rosso, e, su di esso, un oggetto più piccolo, di colore marrone. All'inizio, non prestai grande attenzione a nessuno dei due, ma quando mi fui pienamente accertato che i congegni che ho descritto non potevano esserci utili e neppure dannosi, condussi il bambino verso di essi.
L'oggetto rosso era una sorta di giaciglio, molto elaborato, con cinghie adatte a trattenere un prigioniero, ed intorno vi erano dei meccanismi che sembravano essere destinati alla nutrizione ed all'evacuazione. Il giaciglio era posto su una piccola piattaforma, ed era occupato da ciò che un tempo era stato il corpo di un uomo con due teste. L'aria sottile e secca della montagna aveva disseccato quel corpo molto tempo addietro... come i misteriosi edifici, esso poteva risalire ad uno come a mille anni prima. Era stato un uomo più alto di me, forse perfino un esultante, e dalla possente muscolatura, mentre ora mi sembrava che avrei potuto strappargli via un braccio con un semplice gesto. Non portava indumenti di sorta, e, sebbene si sia abituati agli improvvisi cambi di dimensioni degli organi procreativi, era strano vedere come essi si fossero accartocciati in lui. Sulle teste rimanevano alcuni capelli, e mi parve di capire che quella sulla sinistra era stata biondiccia, e quella sulla destra bruna. Gli occhi di entrambe le teste erano chiusi, e le bocche aperte, munite di alcuni denti. Notai che le cinghie che avrebbero potuto essere usate per tenere ferma quella creatura non erano allacciate.
Il quel momento, tuttavia, ero più interessato al meccanismo che un tempo l'aveva nutrito. Dissi a me stesso che quelle antiche macchine avevano spesso una durata stupefacente, e che, sebbene fossero abbandonate da lungo tempo, avevano goduto delle condizioni ideali alla loro preservazione, e così premetti ogni pulsante che trovai e spostai ogni leva, nel tentativo di far loro produrre un po' di nutrimento. Il bambino mi osservava, e, dopo che ebbi manipolato quegli apparecchi per qualche tempo, mi chiese se saremmo morti di fame.
— No — risposi. — Possiamo andare avanti senza cibo molto più a lungo di quanto tu creda. Avere qualcosa da bere è più urgente, ma, se non riusciamo a trovare nulla qui, vi sarà certamente un po' di neve più in alto, sulla montagna.
— Come è morto? — mi chiese. Per chissà quale ragione, non ero riuscito a costringermi a toccare il cadavere, mentre ora il bambino fece scorrere le dita grassottelle sul braccio avvizzito.
— Gli uomini muoiono. Quel che mi meraviglia è che un simile mostro sia vissuto: creature del genere, di solito muoiono alla nascita.
— Credi che gli altri lo abbiano lasciato qui quando se ne sono andati? — domandò.
— Che lo abbiano lasciato qui vivo, vuoi dire? Suppongo che potrebbero averlo fatto. Forse non ci sarebbe stato un luogo adatto per lui nelle pianure, o forse lui non è voluto andare. Forse lo hanno legato su questo giaciglio quando si è comportato male, o forse era soggetto a pazzia o ad attacchi d'ira violenta. Se una qualsiasi di queste supposizioni è vera, deve aver trascorso i suoi ultimi giorni vagabondando sulla montagna e tornando qui per mangiare e bere, morendo poi quando il cibo e l'acqua da cui dipendeva si sono esauriti.
— Allora qui non c'è acqua — osservò, pratico, il ragazzo.
— Questo è vero. Eppure, non possiamo essere certi che le cose siano andate in quel modo. Potrebbe essere morto per una qualsiasi altra ragione prima che le sue provviste si esaurissero. I vari tipi di ragionamento che abbiamo fatto sembrano suggerire che questa creatura fosse una sorta di animale domestico o di mascotte per la gente che ha intagliato la montagna, e questo è un modo molto elaborato per conservare un animale domestico. Ad ogni modo, non credo che sarò mai in grado di riattivare questo meccanismo.
— Credo che dovremmo scendere a valle — annunciò il bambino, mentre uscivamo dall'edificio circolare.
Mi volsi e mi guardai alle spalle, pensando a quanto fossero stati sciocchi i miei timori. Le porte erano rimaste aperte, nulla si era mosso, nulla era cambiato. Se quella era mai stata una trappola, era una trappola che la ruggine aveva bloccato ormai da secoli.
— Lo penso anch'io — replicai. — Ma il giorno è quasi finito... vedi ora quanto sono lunghe le nostre ombre? Non voglio essere sorpreso dal buio mentre stiamo scendendo lungo l'altro versante, quindi ho intenzione di vedere se posso raggiungere l'anello che abbiamo visto stamattina. Forse troveremo anche l'acqua oltre all'oro. Stanotte dormiremo in quell'edificio rotondo, al riparo dal vento, e domattina cominceremo a discendere il versante settentrionale, alle prime luci dell'alba.
Il bambino annuì per indicare che aveva compreso e mi accompagnò di buon animo quando mi misi a cercare un sentiero che conducesse all'anello. Esso si trovava sul braccio meridionale, quindi stavamo in un certo senso tornando sui nostri passi anche se in effetti ci eravamo avvicinati agli splendenti catafratti provenendo da sud-est. Avevo temuto che l'ascesa fino al braccio si sarebbe dimostrata difficoltosa; invece, non appena raggiungemmo il punto in cui l'immensa altezza del torace e del braccio si levavano dinnanzi a noi, trovai ciò che avevo desiderato parecchie ore prima: una stretta scala. C'erano centinaia di scalini, il che rese la salita ugualmente faticosa, e mi costrinse a trasportare il ragazzo per buona parte di essa.
Il braccio era di pietra liscia, tanto ampio da presentare ben poco pericolo che il bambino potesse cadere, fintanto che rimanevamo nel centro. Lo presi per mano e mi avviai a passo svelto, il manto agitato dal vento.
Alla nostra sinistra, giaceva la salita che avevamo percorso il giorno precedente, e, al di là di essa, c'era la sella montana, verde sotto la sua coltre di giungla. Più in là ancora, velata dalla distanza, c'era la montagna su cui Becan e Casdoe avevano costruito la loro casa. Nel camminare, cercai d'individuare la loro capanna, o almeno la radura in cui essa sorgeva, ed alla fine trovai quella che mi sembrava la superficie della collina che avevo disceso per raggiungerla, una piccola macchia di colore sul fianco della montagna meno alta, con un bagliore d'acqua cadente al suo centro che creava una nota iridescente...
Quando l'ebbi individuata, mi volsi ed osservai il picco sui cui pendii stavamo ora camminando. Adesso potevo vedere la faccia, con la sua mitra di ghiaccio, e, sotto di essa, una spalla su cui un migliaio di cavalleggeri avrebbe potuto esercitarsi agli ordini del loro chiliarca... Davanti a me, il ragazzo indicò e gridò qualcosa che non compresi, mostrandomi i sottostanti edifici e le figure delle guardie di metallo. Ci volle un momento prima che comprendessi quello che intendeva dire... le facce delle statue si erano voltate di tre quarti verso di noi, come lo erano state quella mattina. Le teste si erano mosse. Per la prima volta, seguii la direzione dei loro sguardi... e scoprii che stavano fissando il sole.
— Ho visto! — gridai al ragazzo, annuendo.
Eravamo sul polso, con la piccola pianura della mano stesa dinnanzi a noi, ancor più ampia e sicura del braccio. L'anello era sull'indice, un indice più grosso di un tronco tagliato dal più grande degli alberi. Il piccolo Severian corse su di esso, mantenendo l'equilibrio senza difficoltà, e lo vidi allungare le mani per toccare l'anello.
Vi fu un lampo di luce... brillante ma non accecante nel chiarore pomeridiano, e, poiché era tinta di violetto, parve quasi un'oscurità.
La luce lasciò il ragazzo annerito e consumato. Per un momento, credo, sopravvisse ancora, poiché la testa si gettò all'indietro e le braccia si allargarono. Poi ci fu uno sbuffo di fumo, portato immediatamente via dal vento. Il corpo cadde, contraendosi come fanno le zampe di un insetto morto, e rotolò fino a scomparire dalla mia vista nel crepaccio che separava l'indice dal medio.
Io, che avevo visto marchiare ed accecare tante persone, e che avevo perfino usato personalmente il ferro rovente (fra gli altri bilioni di cose, rammento perfettamente il bruciare della carne delle guance di Morwenna), riuscii a stento a costringermi ad andare a vedere.
In quella stretta fenditura fra le dita c'erano altre ossa, ma erano ossa molto vecchie, che si spezzarono sotto i miei piedi quando saltai giù, come le ossa che costellavano i sentieri della nostra necropoli, ed io non mi curai di esaminarle. Estrassi l'Artiglio. Quando avevo imprecato contro me stesso per non averlo usato allorché il corpo di Thecla era stato portato al banchetto di Vodalus, Jonas mi aveva detto di non essere stupido, e che i poteri dell'Artiglio, quali che fossero, non avrebbero potuto ridare la vita alla carne arrostita.
Ed ora non potei fare a meno di pensare che, se la gemma avesse avuto effetto sul piccolo Severian, non mi sarebbe rimasto altro da fare che condurlo in un luogo sicuro e poi tagliarmi la gola con Terminus Est, perché, se avesse avuto effetto su di lui, allora avrebbe potuto anche richiamare in vita Thecla, se lo avessi usato, mentre ora Thecla era parte di me stesso ed era morta per sempre.
Per un momento, mi parve che ci fosse un luccichio, un'ombra luminosa o un'aura, poi il corpo del bambino si afflosciò in un mucchio di cenere nera agitata dal vento inquieto.
Mi alzai, riposi l'Artiglio e mi avviai per tornare indietro, chiedendomi vagamente quante difficoltà avrei incontrato nel lasciare quella crepa e nel tornare sul dorso della mano. (Alla fine, dovetti poggiare Terminus Est sulla sua punta e mettere un piede sull'elsa per salire, e poi strisciare a testa in avanti fino a che non riuscii ad afferrarla ed a recuperarla). Non c'era alcuna confusione nella mia memoria, ma per un certo tempo ci fu solo una confusione mentale, ed il bambino si fuse in essa con quell'altro bambino, Jader, che aveva vissuto con la sorella morente nello jacal sulla collina di Thrax. Il primo, che era divenuto tanto importante per me, non ero riuscito a salvarlo, mentre avevo curato il secondo, di cui m'importava così poco. In qualche modo, mi sembrava che essi fossero lo stesso bambino, ed indubbiamente quella fu solo una reazione protettiva della mia mente, un rifugio che essa cercò dalla tempesta della pazzia; comunque, mi parve chissà perché che, finché Jader fosse vissuto, il bambino che sua madre aveva battezzato Severian non sarebbe realmente morto.
Avevo avuto intenzione di soffermarmi sulla mano per guardarmi indietro, ma non lo feci... la verità è che temetti di finire per tornare sull'orlo del precipizio e gettarmi di sotto. In effetti, non mi arrestai fino a che non ebbi raggiunto la stretta scalinata di così tante centinaia di scalini che riportava nel grembo della montagna. Allora mi sedetti e, ancora una volta, individuai quella macchia di colore che era la collina sotto cui sorgeva la casa di Casdoe. Mi ricordai l'abbaiare del cane marrone, come lo avevo udito uscendo dalla foresta. Era stato un codardo, quel cane, quando era venuto l'alzabo, ma poi era morto con i denti affondati nella carne di uno zoantropo, mentre io, codardo a mia volta, ero rimasto indietro. Rammentai il volto stanco e grazioso di Casdoe, il bambino che sbirciava da dietro le sue gonne, il modo in cui il vecchio sedeva a gambe incrociate con la schiena al fuoco, parlando di Fechin. Adesso erano tutti morti, Severa e Becan, che non avevo mai visto; il vecchio, il cane, Casdoe, ora il piccolo Severian, Fechin, tutti morti, tutti dispersi nella nebbia che oscura i nostri giorni. Mi sembra che il tempo sia una cosa che si erge altrettanto solida quanto una successione di pali di ferro, con il suo alternarsi interminabile degli anni; e noi fluttuiamo oltre come il Gyoll, durante il nostro viaggio verso un mare da cui torneremo solo sotto forma di pioggia.
Conobbi allora, là sul braccio della gigantesca figura, l'ambizione di riuscire a dominare il tempo, un'ambizione accanto alla quale il desiderio di raggiungere soli lontani era solo l'avidità di un piumato capitano da quattro soldi di riuscire a soggiogare un'altra tribù.
Rimasi seduto là fino a che il sole non fu quasi del tutto scomparso dietro i monti ad ovest. Scendere avrebbe dovuto essere più facile che salire, ma ero molto stanco, ed il sobbalzo di ciascuno scalino mi faceva dolere le ginocchia. La luce era quasi svanita, ed il vento si era fatto gelido. Una delle coperte era bruciata con il bambino, ed io mi avvolsi l'altra intorno al petto ed alle spalle, sotto il mantello. Quando fui a circa metà della discesa, mi soffermai a riposare: del giorno rimaneva solo una sottile mezzaluna rossastra, che si assottigliò ulteriormente e svanì. In quel preciso momento, ciascuno dei grandi catafratti di metallo sotto di me sollevò una mano in un gesto di saluto. Erano così silenziosi e saldi, che avrei quasi potuto credere che fossero stati costruiti con il braccio sollevato, come apparivano in quel momento.
Per un po', la meraviglia di quanto avevo visto annullò in me ogni senso di dolore, e potei solo provare stupore: rimasi dov'ero, fissandoli, senza osare muovermi, poi la notte si stese sulle montagne, e, nell'ultima, tenue luce crepuscolare, osservai le potenti braccia abbassarsi.
Ancora stupefatto, penetrai nel silenzioso gruppo di edifici che sorgevano in grembo alla figura. Se avevo visto fallire un miracolo, ne avevo visto accadere un altro, ed anche un miracolo apparentemente privo di scopo è un'inesauribile fonte di speranza, perché ci dimostra che, dal momento che non comprendiamo ogni cosa, le, nostre sconfitte... così più numerose delle nostre poche e vuote vittorie... potrebbero essere altrettanto speciose.
Per un qualche stupido errore, riuscii a perdere la strada quando tentai di ritrovare l'edificio rotondo in cui avevo detto al ragazzo che avremmo trascorso la notte, ed ero troppo stanco per mettermi a cercarlo.
Invece, mi trovai un angolo riparato e lontano dai guardiani di metallo, e là mi massaggiai le gambe dolenti e mi coprii meglio che potevo per difendermi dal freddo. Anche se dovetti addormentarmi immediatamente, venni ben presto destato da un soffice rumore di passi.
XXV
TYPHON E PIATON
Quando udii i passi, sguainai la spada e mi alzai, rimanendo in attesa nell'ombra per un tempo che mi parve più lungo di un turno di guardia, anche se indubbiamente dovette essere più breve. Altre due volte udii quei passi, rapidi e soffici, ma che suggerivano al contempo l'idea di un uomo massiccio che si stesse muovendo... un uomo possente che si affrettava e quasi correva, con passo leggero ed atletico.
Qui le stelle splendevano in tutta la loro gloria, tanto lucenti quanto debbono apparire a quei naviganti di cui sono i porti, quando esse si levano in cielo per stendere il velo dorato che avvolgerebbe un continente. Potevo vedere i guardiani immoti quasi come se fosse stato giorno, ed anche gli edifici circostanti, bagnati dalla luce multicolore di migliaia di soli. Noi pensiamo con orrore alle raggelate pianure di Dis, il più distante compagno del nostro sole... ma di quanti soli siamo noi il compagno più lontano? Per il popolo di Dis (se esiste) è tutta un'unica notte stellata.
Parecchie volte, mentre rimanevo in piedi sotto le stelle, fui sul punto di riaddormentarmi, e, in preda alla sonnolenza, mi preoccupai del bambino, dicendomi che probabilmente lo avevo svegliato quando mi ero alzato e chiedendomi se sarei riuscito a trovare un po' di cibo per lui, quando fosse spuntato il sole. Dopo simili pensieri, il ricordo della sua morte mi tornava alla mente così come la notte era calata sulle montagne, un'ondata di oscurità e di disperazione. Allora compresi come doveva essersi sentita Dorcas quando Jolenta era morta. Fra me ed il bambino non c'era stata alcuna attrazione sessuale, come credo fosse invece talvolta esistita fra Dorcas e Jolenta, ma allora non era stato il loro amore fisico a destare la mia gelosia. La profondità dei miei sentimenti per quel bambino era stata pari di certo a quella dei sentimenti di Dorcas verso Jolenta (e certo molto maggiore di quelli di Jolenta per Dorcas). Pensai che, se Dorcas lo avesse saputo, ne sarebbe stata gelosa come lo ero stato io talvolta di lei, se solo mi aveva amato come io avevo amato lei.
Quando finalmente non udii più i passi, mi nascosi meglio che potevo, mi distesi e dormii. Mi ero aspettato che non mi sarei più destato da quel sonno, o che mi sarei destato con un coltello puntato alla gola, ma non accadde nulla del genere. Sognando acqua corrente, dormii ben oltre l'alba e mi svegliai solo, freddo ed irrigidito.
Non m'importava nulla del segreto dei passi, o dei guardiani o dell'anello o di qualsiasi altra cosa in quel luogo maledetto. Il mio unico desiderio era di andarmene di là al più presto possibile, e fui felice... anche se non avrei saputo spiegarmene il motivo, quando vidi che non sarei stato costretto a passare nuovamente dinnanzi all'edificio circolare nel mio tragitto verso il pendio nord-occidentale della montagna.
Ci sono state molte occasioni in cui ho avuto la sensazione di essere impazzito, perché ho avuto molte grandi avventure, e le avventure più grandi sono quelle che hanno maggiore effetto sulla nostra mente. E così fu anche allora. Un uomo, più alto di me e dalle spalle più larghe delle mie, uscì dal mezzo dei piedi di un catafratto, e fu come se una delle mostruose costellazioni del cielo notturno fosse caduta su Urth e si fosse rivestita di pelle umana, perché quell'uomo aveva due teste, come un orco di un qualche racconto dimenticato in Le Meraviglie di Urth e del Cielo.
Istintivamente, portai la mano all'elsa della spada che tenevo sulla spalla. Una delle teste rise, e credo che quella sia stata la sola risata che abbia mai accompagnato lo snudarsi della mia grande lama.
— Perché sei allarmato? — mi chiese. — Vedo che sei altrettanto ben equipaggiato quanto me. Qual è il nome della tua compagna?
— È Terminus Est — replicai, ammirando la sua baldanza nonostante il mio stupore, e girai la spada in modo che potesse vedere l'incisione sull'acciaio.
— «Questo è il luogo di separazione». Molto bene, molto bene davvero, e particolarmente bene che quelle parole vengano lette qui ed ora, perché questo tempo traccerà davvero una linea fra il vecchio ed il nuovo, quale il mondo non ha ancora visto. Il nome del mio compagno è Piaton, il che, temo, non significa nulla. È un servitore inferiore a quello che tu possiedi, anche se forse è un migliore destriero.
Sentendo pronunciare il suo nome, l'altra testa spalancò gli occhi, che erano semichiusi, e li fece roteare, mentre la sua bocca si muoveva senza che ne uscisse alcun suono, tanto che io pensai che fosse una specie d'idiota.
— Ma ora puoi riporre la tua arma. Come vedi, sono disarmato, anche se già decapitato, e, in ogni caso, non intendo farti alcun male.
Mentre parlava, sollevò le mani e si girò su un fianco e sull'altro, in modo che potessi vedere che era completamente nudo, cosa già fin troppo evidente.
— Sei forse il figlio dell'uomo morto che ho visto nell'edificio laggiù? — chiesi. Avevo rinfoderato Terminus Est, e, mentre parlavo, l'essere si avvicinò di un passo dicendo:
— Niente affatto. Io stesso sono quell'uomo.
Dorcas emerse nei miei pensieri come se stesse uscendo dalle scure acque del Lago degli Uccelli, e sentii ancora la sua mano morta stringere la mia. Prima di rendermi conto di parlare, sbottai:
— Ti ho fatto tornare io in vita?
— Di' piuttosto che la tua venuta mi ha destato. Tu mi credevi morto, mentre ero solo inaridito. Ho bevuto, e, come vedi, vivo di nuovo. Bere è vivere, ed essere bagnati dall'acqua significa rinascere.
— Se quello che mi dici è vero, è meraviglioso. Ma ho io stesso troppo bisogno d'acqua per pensarci ora. Hai detto di aver bevuto, ed il modo in cui lo hai detto sembra almeno sottintendere che tu abbia intenzioni amichevoli nei miei confronti. Dimostralo, per favore: è molto tempo che non mangio e non bevo.
— Tu hai — disse, con un sorriso, la testa che parlava, — una maniera veramente meravigliosa di adattarti a tutti i miei piani... C'è un'appropriatezza in te, e perfino nel tuo vestiario, che trovo deliziosa. Stavo giusto per suggerire di andare dove vi sono cibo e bevande in quantità. Seguimi.
In quel momento, credo che avrei seguito chiunque mi avesse promesso di procurarmi un po' d'acqua da qualche parte. Da allora, ho più volte tentato di convincermi che andai per curiosità o perché speravo di scoprire il segreto dei grandi catafratti; ma quando rammento quegli istanti ed analizzo la mia mente com'era allora, non vi trovo altro che disperazione e sete. La cascata accanto alla casa di Casdoe intrecciava le sue colonne d'argento dinnanzi ai miei occhi, e rammentai la Fontana Vatica della Casa Assoluta, ed il flusso d'acqua che era sceso dalla cima della collina, a Thrax, quando avevo aperto la chiusa per allagare il Vincula.
L'uomo dalle due teste camminava davanti a me come se fosse stato sicuro che lo avrei seguito, ed altrettanto sicuro che non lo avrei attaccato; quando aggirammo un angolo, mi resi conto per la prima volta che non mi ero trovato, come credevo, su una di quelle strade a forma di raggio che portavano all'edificio circolare, perché esso si levava ora dinnanzi a noi. Una porta... Anche se non era quella attraverso cui eravamo passati io ed il piccolo Severian... era aperta come prima, ed entrammo.
— Qui — disse la testa che parlava. — Sali.
L'oggetto che m'indicava era simile ad una barca, ed era imbottito all'interno come lo era stata la barca di nenufari nel giardino dell'Autarca, ma non galleggiava nell'acqua, bensì nell'aria. Quando toccai la frisata, la barca beccheggiò e sussultò sotto la mia mano, anche se il movimento era troppo leggero per essere visibile.
— Questo deve essere un velivolo. Non ne avevo mai visto uno tanto da vicino, in precedenza — osservai.
— Se un velivolo fosse una rondine, questo sarebbe un passero, forse. Oppure una talpa, o un uccello giocattolo che i bambini fanno volare colpendolo con i bastoni. Credo che la cortesia richieda che tu salga per primo. Ti assicuro che non c'è alcun pericolo.
Eppure, mi trattenni: mi sembrava che quel vascello avesse un che di talmente misterioso che per il momento non riuscii ad indurmi a mettervi piede.
— Vengo da Nessus — dissi, — e dalla riva orientale del Gyoll, e ci è stato insegnato che l'ospite d'onore a bordo di qualsiasi vascello deve essere l'ultimo a saure ed il primo a scendere.
— Precisamente — replicò la testa che parlava, e, prima che avessi tempo di comprendere cosa stava succedendo, l'uomo dalle due teste mi afferrò per la vita e mi gettò nell'imbarcazione come fossi stato un bambino. Essa sobbalzò e rollò sotto l'impatto del mio corpo, ed un momento più tardi s'inclinò violentemente quando l'uomo dalle due teste balzò accanto a me. — Spero che tu non abbia pensato di poter avere la precedenza su di me, vero?
Sussurrò qualcosa, ed il vascello cominciò a muoversi: inizialmente scivolò lento in avanti, ma poi acquistò maggiore velocità.
— La vera cortesia — proseguì l'uomo, — è quella che si guadagna il suo nome, è la cortesia che è veritiera. Quando il plebeo s'inginocchia dinnanzi al suo monarca, offre il suo collo, e lo offre perché sa che il suo governante glielo può troncare quando lo desidera. La gente comune ama dire... o meglio, era solita dire, in tempi più antichi e migliori, che io non amavo la verità; ma la verità è, che è esattamente la verità che io amo, un'aperta ammissione dei fatti.
Durante tutto quel tempo, eravamo completamente distesi, con meno di una mano di distanza fra noi. La testa idiota che l'altra aveva chiamato Piaton, strabuzzava gli occhi nella mia direzione e muoveva le labbra nel parlare, emettendo un confuso mormorio.
Tentai di sollevarmi a sedere, ma l'uomo dalle due teste mi bloccò con un braccio d'acciaio e mi respinse giù, ammonendo:
— È pericoloso. Questi cosi sono stati costruiti perché vi si stesse sdraiati. Non vorrai perdere la testa, vero? È altrettanto brutto, credimi, quanto averne una di troppo.
La barca puntò il naso verso il basso e sprofondò nell'oscurità. Per un momento, pensai che stessimo per morire, ma quella sensazione si tramutò in un'altra di esilarante velocità, quello stesso tipo di sensazione che avevo sperimentato da ragazzo, quando d'inverno scivolavamo fra i mausolei su tronchi di sempreverdi. Quando mi fui un po' abituato alla cosa, chiesi:
— Sei nato così? Oppure Piaton è stato in qualche modo innestato su di te? — Credo che avevo già cominciato a rendermi conto che la mia vita sarebbe dipesa dallo scoprire quanto più potevo quello strano essere.
— Il mio nome è Typhon — rise la testa che parlava. — E tanto vale che tu mi chiami così. Hai sentito parlare di me? Un tempo governavo questo pianeta e molti altri.
— Voci della tua potenza echeggiano ancora... Typhon — replicai, perché ero certo che mentisse.
— Eri sul punto di chiamarmi Imperatore o qualcosa del genere, vero? — rise di nuovo. — E lo farai ancora. No, non sono nato così, o nato affatto, nel senso che tu intendi. Né Piaton è stato innestato su di me: io sono stato innestato su di lui. Cosa ne pensi?
La barca viaggiava tanto rapidamente che l'aria fischiava sulle nostre teste, ma la discesa sembrava meno ripida di prima, e, mentre parlavo, divenne quasi pianeggiante.
— Lo desideravi?
— L'ho ordinato.
— Allora credo che sia molto strano. Perché avresti dovuto ordinare che ti facessero una cosa simile?
— In modo da poter vivere, naturalmente. — Era troppo scuro perché potessi discernere una delle due facce, anche se quella di Typhon era a meno di un cubito dalla mia. — Tutta la nostra vita è diretta a preservare la vita... questa è quella che chiamiamo la Legge dell'Esistenza. I nostri corpi, vedi, muoiono molto prima di noi, ed in effetti sarebbe onesto dire che moriamo perché essi muoiono. I miei medici, che naturalmente erano i migliori di parecchi mondi, mi dissero che poteva essere possibile per me occupare un nuovo corpo, ed inizialmente pensarono di racchiudere il mio cervello nel cranio occupato da un altro. Non vedi il difetto di questa cosa?
— No, temo di no — replicai, chiedendomi se scherzasse.
— La faccia... la faccia! La mia faccia sarebbe andata perduta, ed è la faccia a cui gli uomini sono abituati ad obbedire! — La sua mano mi strinse il braccio nel buio. — Dissi loro che non andava. Allora uno dei dottori suggerì che si poteva sostituire l'intera testa. Sarebbe risultato anche più facile, sosteneva, perché sarebbero state lasciate intatte le complesse connessioni neurali che controllano il linguaggio e la vista. Gli promisi un palatinato se avesse avuto successo.
— Mi sembrerebbe che... — cominciai.
— Che sarebbe stato meglio se fosse stata prima rimossa la testa originale? — rise ancora Typhon. — Sì, l'ho sempre pensato anch'io. Ma la tecnica per operare le connessioni neurali era difficile, ed il dottore scoprì... lavorando su soggetti sperimentali che gli procurai... che il modo migliore era quello di trasferire chirurgicamente solo le funzioni volontarie. Quando questo fosse stato fatto, quelle involontarie si sarebbero alla fine trasferite da sole, ed allora si sarebbe potuta rimuovere la testa originale. Sarebbe rimasta una cicatrice, ovviamente, ma la camicia sarebbe bastata a coprirla.
— Ma qualcosa è andato storto? — Mi ero allontanato da lui quanto più era possibile nello spazio ristretto della barca.
— Soprattutto, era questione di tempo. — Il terribile vigore della sua voce, che era parso incessante, sembrò ora svanire. — Piaton era uno dei miei schiavi, non il più grosso, ma il più forte di tutti, li abbbiamo analizzati. Non ho mai pensato che uno forte come lui potesse rivelarsi forte anche nell'aggrapparsi al controllo del funzionamento del suo cuore...
— Capisco — commentai, anche se in realtà non capivo nulla.
— Era anche un periodo di grande confusione. I miei astronomi mi avevano detto che l'attività del sole sarebbe lentamente diminuita, fin troppo lentamente, in effetti, perché il mutamento fosse percepibile nel corso della vita di un uomo. Si sbagliavano. Il calore del sole diminuì di quasi due parti su mille nel giro di pochi anni, poi si stabilizzò. I raccolti furono rovinati, e sopravvennero carestia e disordini. Sarei dovuto partire allora.
— Perché non l'hai fatto?
— Sentivo che era necessaria una mano ferma. Ci può essere una sola mano ferma, che sia del governante o di qualcun altro... Inoltre, era comparso un operatore di meraviglie, nel modo in cui sono soliti quei tipi. Non era veramente un fomentatore di disordini, anche se alcuni dei miei ministri hanno detto che lo era. Io mi ero ritirato qui, per restarvi fino a quando il trattamento fosse stato completato, e, dal momento che malattie e deformità sembravano scomparire dinnanzi a lui, ordinai che venisse condotto da me.
— Il Conciliatore! — esclamai, e, un momento più tardi, mi sarei tagliato le vene per averlo detto.
— Sì, quello era uno dei suoi nomi. Sai dove sia adesso?
— È morto da molte chiliadi.
— Eppure rimane ancora, giusto?
Quell'osservazione mi sorprese al punto che abbassai lo sguardo sulla sacca che avevo appesa al petto per vedere se la luce azzurra non ne trapelasse. In quel momento, il vascello su cui eravamo sollevò la prua e cominciò a salire, ed il fischio del vento intorno a noi divenne il ruggito di una tromba d'aria.
XXVI
GLI OCCHI DEL MONDO
Forse l'imbarcazione era controllata dalla luce, poiché non appena essa brillò intorno a noi, si arrestò immediatamente. Nel grembo della montagna avevo sofferto il freddo, ma quello era nulla in confronto a ciò che provavo ora. Non soffiava il vento, ma faceva più freddo che nell'inverno più gelido che riuscissi a rammentare, e lo sforzo di alzarmi a sedere mi fece girare la testa.
— È passato molto tempo dall'ultima volta che sono stato qui — commentò Typhon, balzando giù. — Bene, è bello essere di nuovo a casa.
Eravamo in una camera vuota scavata nella solida roccia, un luogo grande quanto una sala da ballo. Due finestre circolari all'estremità più lontana lasciavano entrare la luce, e Typhon si affrettò in quella direzione; esse distavano fra loro forse cento passi, e ciascuna era larga forse dieci cubiti. Lo seguii fino a che notai che i suoi piedi nudi lasciavano sul terreno distinte impronte scure: la neve era entrata dalle finestre e si era accumulata sul pavimento di pietra. Caddi sulle ginocchia, la raccolsi e me ne riempii la bocca.
Non avevo mai assaporato nulla di così delizioso. Il calore della mia lingua parve fonderla immediatamente e tramutarla in nettare, ed ebbi l'impressione che sarei potuto rimanere dov'ero per tutta la vita, in ginocchio a divorare neve. Typhon si volse, e, vedendomi, rise.
— Mi ero dimenticato di quanto sei assetato. Fa' pure, abbiamo tempo in abbondanza, e quello che ti volevo mostrare può aspettare.
La bocca di Piaton si mosse come aveva già fatto in precedenza, e mi parve di cogliere un'espressione di simpatia su quel volto da idiota; questo mi fece tornare in me, forse anche perché avevo già inghiottito parecchie boccate di neve. Dopo aver deglutito ancora, rimasi dov'ero, accumulando un'altra porzione di neve, ma dissi:
— Mi hai detto di Piaton. Perché non può parlare?
— Non può respirare, poveretto — spiegò Typhon. — Come ti ho detto, io controllo tutte le funzioni volontarie... e presto controllerò anche quelle involontarie. Così, anche se il nostro povero Piaton può ancora muovere le labbra e la lingua, è come un musicista che tocca i tasti di un corno che non è in grado di soffiare. Quando ne avrai avuto abbastanza di quella neve, dimmelo, ed io ti mostrerò dove puoi trovare qualcosa da mangiare.
— Così è sufficiente — risposi dopo essermi riempito ancora la bocca ed aver deglutito. — Sì, ho molta fame.
— Bene — commentò Typhon, e, allontanatosi dalla finestra, si accostò al muro su un lato della camera. Quando mi avvicinai a mia volta, vidi che esso non era di pietra (come avevo supposto) ma sembrava invece fatto di cristallo o di uno spesso vetro fumoso; al di là, potevo vedere forme di pane e molti strani piatti, altrettanto immoti e perfetti come cibo dipinto.
— Tu hai un talismano di potere — mi disse Typhon. — Ora me lo devi dare, in modo che possiamo aprire questa dispensa.
— Temo di non capire cosa intendi dire. Vuoi la mia spada?
— Voglio la cosa che porti al collo — spiegò, e tese la mano.
— Non c'è potere in essa. — Indietreggiai.
— Allora non perderai nulla. Dammela. — Mentre Typhon parlava, la testa di Piaton si mosse impercettibilmente da una parte all'altra.
— È solo una rarità. Una volta credevo che avesse grandi poteri, ma quando ho tentato di resuscitare una bellissima donna che stava morendo non ha avuto alcun effetto, e ieri non ha potuto resuscitare il bambino che viaggiava con me. Come sai di essa?
— Vi stavo osservando, naturalmente. Mi sono arrampicato abbastanza in alto da poterti vedere bene, e, quando il mio anello ha ucciso il bambino e tu sei andato da lui, ho visto il fuoco sacro. Non è necessario che tu me lo metta in mano, se non vuoi... fa' solo ciò che ti dico.
— Allora avresti potuto avvertirci — osservai.
— Perché avrei dovuto? In quel momento non contavate nulla per me. Vuoi mangiare, sì o no?
Tirai fuori la gemma. Dopo tutto, Dorcas e Jonas l'avevano vista, ed avevo sentito dire che le Pellegrine l'esponevano in mostra in molte occasioni. Essa giacque sul mio palmo come un pezzo di vetro azzurro, tutto il suo fuoco svanito. Typhon si chinò con curiosità.
— Poco impressionante. Ora inginocchiati. — Obbedii. — Ripeti con me: io giuro in nome di tutto ciò che questo talismano rappresenta che, in cambio del cibo che riceverò sarò la creatura di colui che conosco come Typhon, consegnandogli per sempre... — Stava nascendo un incantesimo al confronto del quale la rete di Decuman sembrava un tentativo primitivo. Quest'incantesimo era tanto sottile che ero quasi inconsapevole della sua presenza, eppure percepivo al tempo stesso che ogni sua parte era dura come acciaio. — ... tutto ciò che ho e tutto ciò che sarò, ciò che possiedo ora e ciò che possiederò nei giorni a venire, vivendo o morendo a suo piacimento.
— Ho infranto altri incantesimi prima d'ora — dissi, — e se lo pronuncio, infrangerò anche questo.
— Allora pronuncialo — ribatté Typhon. — È poco più di una formalità che dobbiamo seguire. Pronuncialo, e te ne libererò non appena avrai finito di mangiare.
— Hai detto che amavi la verità — risposi invece, alzandomi. — Ora capisco perché... è la verità che acceca gli uomini. — Misi via l'Artiglio.
Se non lo avessi fatto, un momento più tardi lo avrei perso per sempre: Typhon mi afferrò, bloccandomi le braccia contro i fianchi in modo che non potessi estrarre Terminus Est, e mi trasportò di corsa fino ad una delle grandi finestre. Lottai, ma con gli stessi risultati di un cucciolo che si dibatta nelle mani di un uomo forte.
Mentre ci avvicinavamo, le grandi dimensioni della finestra mi diedero l'impressione che non fosse affatto una finestra: era come se una parte del mondo esterno fosse penetrata nella camera, ed era una parte che non era formata dai prati e dagli alberi della base della montagna, come mi ero aspettato, ma da semplice vuoto, da un frammento di cielo.
La parete di roccia della camera, spessa meno di un cubito, fluttuò all'indietro lungo gli angoli del mio campo visivo come la linea confusa che si vede quando si nuota con gli occhi aperti e che segna la demarcazione fra l'acqua e l'aria.
Poi mi trovai all'esterno. La presa di Typhon si era spostata alle mie caviglie, ma, a causa dello spessore degli stivali o forse solo del senso di panico che m'invadeva, per un momento ebbi l'impressione di non essere tenuto affatto. Avevo la schiena rivolta alla massa di montagna, e l'Artiglio, racchiuso nel suo morbido involucro, mi dondolava sotto la testa, trattenuto dal mento. Ricordo di aver provato l'improvviso, assurdo timore che Terminus Est potesse scivolare fuori dal suo fodero.
Mi tirai su con i muscoli addominali, come farebbe un ginnasta che si spenzoli dalla sbarra tenendosi con i piedi, e Typhon lasciò andare una delle mie caviglie per colpirmi alla bocca con un pugno, cosicché ricaddi all'indietro. Gridai, e tentai di ripulirmi gli occhi dal sangue che sgocciolava su di essi dalle labbra.
La tentazione di estrarre la spada, sollevarmi e colpire fu quasi troppo forte perché potessi resistervi, eppure sapevo bene che non potevo fare una cosa del genere senza dare a Typhon tutto il tempo necessario per notare cosa intendevo e lasciarmi cadere. Anche se fossi riuscito, sarei morto.
— Ti ordino ora... — la voce di Typhon giunse dall'alto, apparentemente distante in quella dorata immensità, — ... di richiedere al tuo talismano tutto l'aiuto che esso è in grado di darti... — Fece una pausa, ed ogni momento parve l'Eternità stessa. — Ti può aiutare?
— No — riuscii a rispondere.
— Capisci dove ti trovi?
— Lo vedo. Sulla faccia dell'autarca della montagna.
— È la mia faccia... lo vedi? Io ero l'autarca. Sono io che torno di nuovo. Sei all'altezza dei miei occhi, ed alle tue spalle c'è l'iride del mio occhio destro. Non capisci? Tu sei una lacrima, una singola lacrima nera che io verso. In un istante, potrei lasciarti cadere a macchiare il mio abito. Chi ti può salvare, Portatore del Talismano?
— Tu, Typhon.
— Soltanto io?
— Soltanto Typhon.
Mi tirò indietro, ed io mi aggrappai a lui come una volta il bambino si era aggrappato a me, fino a che non fummo ben addentro la camera che era la cavità cranica della montagna.
— Ora — disse Typhon, — faremo ancora un tentativo. Devi venire di nuovo con me vicino all'occhio, e questa volta devi venirci spontaneamente. Forse ti riuscirà più facile se ci avvicineremo all'occhio sinistro invece che al destro.
Mi prese per il braccio, e suppongo che si sarebbe potuto dire che andai di mia spontanea volontà, perché camminai; ma credo, in vita mia, di non aver mai camminato altrettanto controvoglia. Fu solo il ricordo della mia recente umiliazione che m'impedì di rifiutare. Non ci arrestammo fino a che fummo sul bordo stesso dell'occhio, ed allora, con un gesto, Typhon mi costrinse a guardare fuori: sotto di noi, si stendeva un ondulato oceano di nubi, azzurro d'ombre dove non era tinto di rosa dalla luce del sole.
— Autarca — dissi, — come mai siamo così in alto quando il vascello che ci ha trasportati è sceso per un tunnel tanto lungo?
— Perché la gravità dovrebbe servire Urth, quando può servire Typhon? — L'uomo accantonò la domanda con una scrollata di spalle. — Eppure Urth è bella. Guarda! Vedi il manto del mondo: non è splendido?
— Decisamente splendido — convenni.
— Può essere il tuo manto. Ti ho detto che ero autarca di molti mondi, e lo sarò ancora, questa volta di molti più mondi. Di questo pianeta, il più antico di tutti, avevo fatto la mia capitale, ed è stato un errore, perché ho indugiato troppo allorché è accaduto il. disastro. Quando finalmente ho deciso di fuggire, la via di fuga mi era preclusa. Coloro cui avevo affidato il comando di navi in grado di raggiungere le stelle erano andati via con esse, ed io ero assediato da questa montagna. Non ripeterò lo stesso errore. La mia capitale sarà altrove, e darò a te questo mondo, perché lo governi come mio vassallo.
— Non ho fatto nulla per meritare una simile esaltata posizione — obiettai.
— Portatore del Talismano, nessuno, nemmeno tu, può chiedermi di giustificare le mie azioni. Contempla invece il tuo impero!
Mentre parlava, si era levato un forte vento, sotto la cui sferza le nubi si erano divise come soldati e distribuite in ranghi serrati muovendo verso est. Al disotto di esse, vidi le montagne, le pianure costiere, e, al di là delle pianure, la vaga linea azzurra del mare.
— Guarda! — Typhon indicò, e, mentre lo faceva, un puntino di luce apparve fra le montagne a nord-est. — Qualche grande arma ad energia è stata usata laggiù. Forse dal governante di quest'epoca, forse dai suoi nemici. Chiunque sia stato, adesso la sua postazione è rivelata, e verrà distrutta. Le armi di quest'epoca sono deboli: fuggiranno dinnanzi ai nostri flagelli come la pula al tempo del raccolto.
— Come puoi sapere tutto questo? — chiesi. — Tu eri morto, fino a quando mio figlio ed io non siamo giunti da te.
— Sì, ma ho vissuto quasi un giorno intero, ed ho inviato i miei pensieri in luoghi lontani. Ci sono poteri nel mare, ora, che vorrebbero governare: essi diverranno nostri schiavi, e le orde del nord sono loro schiave.
— Che ne sarà della gente di Nessus? — Ero gelato fino alle ossa e le gambe mi tremavano.
— Nessus sarà la tua capitale, se tu lo desideri. Dal tuo trono di Nessus m'invierai un tributo di belle ragazze e di bei giovani, di antichi congegni, di libri e di tutte le belle cose che questo mondo di Urth produce.
Indicò nuovamente, e vidi i giardini della Casa Assoluta come uno scialle verde ed oro gettato su un prato, e, al di là di essi, il Muro di Nessus e la possente città stessa, la Città Immortale, che si stendeva per così tante centinaia di leghe che perfino le torri della Cittadella erano perse in quell'interminabile distesa di tetti e di strade tortuose.
— Nessuna montagna è tanto alta — osservai. — Se questa fosse la più alta del mondo, e si trovasse in cima alla seconda più alta, un uomo non potrebbe ugualmente vedere lontano quanto sto vedendo io.
— Questa montagna è tanto alta quanto io desidero che sia. — Typhon mi prese per una spalla. — Hai dimenticato che faccia essa porta?
Seppi soltanto fissarlo.
— Sciocco. Tu vedi attraverso i miei occhi. Ora tira fuori il talismano. Riceverò il tuo giuramento su di esso.
Trassi fuori l'Artiglio... per l'ultima volta, pensai... dalla sacca di cuoio che Dorcas aveva cucito per esso. Mentre lo facevo, notai un certo movimento sotto di me: la vista del mondo dalla finestra della camera era sempre splendida al di là di ogni immaginazione, ma era solo quella che si può vedere da un alto picco, e cioè quella dell'azzurro disco di Urth. Fra le nubi sottostanti, riuscii ad intravedere il grembo della montagna, con i numerosi edifici rettangolari, la costruzione circolare al centro ed i catafratti: lentamente, essi stavano distogliendo i volti dal sole e li stavano sollevando per guardare noi.
— Essi mi onorano — disse Typhon. La bocca di Piaton si mosse, ma non all'unisono con la sua, e stavolta prestai attenzione ad essa.
— Prima eri affacciato all'altro occhio — risposi a Typhon, — ed essi non ti hanno onorato allora. Essi salutano l'Artiglio. Autarca, che ne sarà del Nuovo Sole, se mai verrà? Sarai anche suo nemico, come sei stato nemico del Conciliatore?
— Giura dinnanzi a me, credi in me, e, quando verrà, io sarò il suo signore, ed egli il più abbietto dei miei schiavi.
Allora colpii.
Esiste un modo di fracassare il naso con il palmo della mano così che l'osso scheggiato vada a conficcarsi nel cervello. Bisogna però essere molto svelti, perché, senza riflettere, la vittima tende ugualmente a sollevare le mani per proteggersi quando vede arrivare il colpo. Io non fui svelto quanto Typhon, che alzò le mani a proteggere la sua faccia, ma colpii Piaton e percepii il piccolo e terribile scricchiolio che è il sigillo della morte. Il cuore che non aveva servito più Piaton da così tante chiliadi cessò di battere.
Dopo un momento, spinsi con un piede il corpo di Typhon nel precipizio.
XXVII
PER ALTI SENTIERI
La barca galleggiante non mi voleva obbedire, perché non conoscevo la parola per farla muovere. (Ho spesso pensato che quella parola fosse una delle cose che Piaton aveva cercato di dirmi, così come mi aveva suggerito di togliergli la vita; e vorrei avergli prestato attenzione prima). Alla fine, fui costretto a scendere dall'occhio destro, la peggiore scalata di tutta la mia vita. In questo prolungato racconto delle mie avventure, ho più volte detto che non dimentico mai nulla, e invece ho dimenticato molte cose di quella discesa perché ero esausto al punto che mi muovevo come nel sonno. Quando finalmente entrai barcollando nella silenziosa e sigillata città ai piedi dei catafratti, doveva essere quasi notte, e mi distesi accanto ad un muro che mi proteggeva dal vento.
Le montagne posseggono una terribile bellezza, anche quando portano una persona quasi all'orlo della morte; invero, io credo che questa loro bellezza sia allora più evidente, e che i cacciatori che penetrano nelle montagne ben vestiti e ben nutriti e le lasciano ben nutriti e ben vestiti, raramente la notino. Lassù, tutto il mondo può apparire come un bacino naturale d'acque immote e ghiacciate.
Quel giorno discesi per un buon tratto, e trovai altipiani che si stendevano per miglia, coperti di dolce erba e di fiori quali non avevo mai visto a più basse altitudini, fiori piccoli e rapidi a fiorire, perfetti e puri come le rose non potranno mai esserlo.
Quegli altipiani erano frequentemente costeggiati da alture, e, più di una volta, pensai che non avrei più potuto proseguire e sarei dovuto tornare indietro, ma alla fine riuscii sempre a trovare un passaggio, più in alto o più in basso, ed a continuare. Non vidi soldati cavalcare o marciare sotto di me, e, sebbene quello fosse in un certo senso un sollievo, ... poiché avevo avuto il timore che le pattuglie dell'arconte stessero ancora seguendo le mie tracce... era una cosa che mi metteva anche a disagio, in quanto mi faceva capire che non ero più nelle vicinanze delle piste lungo le quali veniva rifornito l'esercito.
Il ricordo dell'alzabo tornò a perseguitarmi: sapevo che dovevano esserci molti altri esemplari della sua specie sulle montagne, e poi non potevo avere la certezza che quello incontrato fosse realmente morto. Chi poteva dire quali capacità di recupero possedesse una simile creatura? Se anche riuscivo a dimenticare quella paura alla luce del sole, allontanandola a forza, per così dire, dalla sfera della mia coscienza servendomi delle preoccupazioni relative alla presenza o all'assenza dei soldati, e delle immagini di migliaia di adorabili picchi e cataratte e vallate profonde che assalivano i miei occhi da ogni lato, essa ritornava di notte, quando, raggomitolato nella coperta e nel mantello, e bruciante di febbre, avevo l'impressione di udire il passo soffice della bestia e lo strisciare dei suoi artigli.
Si dice spesso che il mondo sia ordinato in base ad un piano (che si tratti di un piano preesistente alla sua creazione o derivato durante i bilioni di eoni di esistenza del mondo dall'inesorabile logica dell'ordine e della crescita, non fa alcuna differenza); se è così, allora in tutte le cose deve esistere la rappresentazione miniaturizzata delle glorie più grandi ed una descrizione enfatizzata degli aspetti più infimi.
Per tenere lontana la mia attenzione dal ricordo dell'orrore costituito dall'alzabo, cercai di fissarla su quella sfaccettatura della natura della bestia che le permette d'incorporare i ricordi e la volontà degli esseri umani per farli divenire suoi. Il parallelo con le cose più infime mi creò qualche difficoltà: l'alzabo poteva essere paragonato a certi insetti, che si ricoprono il corpo con ramoscelli ed erba, in modo da non essere scoperti dai loro nemici. Vista sotto un certo aspetto, questa cosa non è un inganno... i ramoscelli e l'erba sono là e sono reali. Eppure, l'insetto è sotto di essi. E così era per l'alzabo. Quando Becan, parlando con la bocca della bestia, mi aveva detto di desiderare di avere con sé la moglie ed il figlio, era lui stesso convinto di descrivere i propri desideri, ed in effetti lo stava facendo; eppure, quei desideri sarebbero serviti a nutrire l'alzabo, che era nascosto all'interno e che celava i suoi bisogni e il suo io dietro la voce di Becan.
Non mi sorprese il fatto che si rivelasse molto più difficile riuscire a collegare l'alzabo con una qualche verità più elevata, ma alla fine decisi che poteva essere paragonato all'assorbimento da parte del mondo materiale dei pensieri e degli atti di esseri umani che, per quanto non più vivi, hanno lasciato in quel mondo materiale, con attività che noi possiamo definire opere d'arte, sia che fossero edifici, canzoni, battaglie o esplorazioni, un'impronta tale che per qualche tempo dopo la loro scomparsa si può dire che il mondo prolunghi la loro vita. Proprio sotto questo punto di vista si poteva vedere il suggerimento avanzato dalla bambina Severa all'alzabo di spostare il tavolo nella casa di Casdoe per raggiungere il soppalco, anche se la bambina Severa era morta.
Poi, Thecla venne a consigliarmi, e, sebbene io mi appellassi a lei con ben poca speranza, ed ella avesse ben pochi consigli da darmi, era però stata messa in guardia tante volte contro i pericoli delle montagne da sentirsi indotta a spingermi a proseguire sempre più in basso, verso minori altitudini e maggior calore, non appena fosse sorto il sole.
Non avevo più fame, perché la fame è una cosa che passa se non si mangia. Adesso ero invece provato dalla debolezza, accompagnata da un'eccezionale chiarezza di mente. Poi, la sera del secondo giorno, dopo che ero disceso dalla pupilla dell'occhio destro, m'imbattei nel rifugio di un pastore, una sorta di alveare di pietra, all'interno del quale trovai una pentola ed una quantità di granturco macinato.
Una sorgente montana sgorgava appena ad una dozzina di passi di distanza, ma non c'era legna per il fuoco. Trascorsi la serata raccogliendo nidi abbandonati di uccelli su una superficie rocciosa a mezza lega di distanza, e quella notte accesi il fuoco usando come acciarino la punta di Terminus Est, feci bollire quel pasto secco (il che richiese parecchio tempo a causa dell'altitudine), e lo mangiai tutto. Fu, credo, il pasto più buono che avessi mai consumato, ed aveva un esclusivo ma inconfondibile aroma di miele, come se il nettare della pianta fosse stato trattenuto dai chicchi secchi, così come il sale di certi mari, di cui solo Urth rammenta l'esistenza, è ancora conservato nel cuore di alcune pietre.
Ero deciso a pagare per quello che avevo mangiato, e frugai nella giberna alla ricerca di qualcosa che avesse almeno lo stesso valore del granturco, da lasciare al pastore. Non potevo cedere il libro marrone di Thecla, e mi addolcii la coscienza dicendomi che era improbabile che il pastore sapesse leggere. Non volevo neppure cedere la mia pietra per affilare spezzata... sia perché mi ricordava l'uomo verde, sia perché sarebbe stata un dono di cattivo gusto, là dove pietre altrettanto buone giacevano dappertutto sull'erba. Non avevo denaro, perché avevo lasciato tutto ciò che possedevo a Dorcas, ed alla fine optai per la mantella scarlatta che lei ed io avevamo trovato nel fango della città di pietra molto tempo prima di arrivare a Thrax. Era macchiata e troppo sottile per dare calore, ma sperai che i tasselli ed il colore vivace piacessero a colui del cui cibo mi ero nutrito.
Non ho mai pienamente compreso come avesse fatto quella mantella a finire là dove l'avevo trovata, né se lo strano individuo che ci aveva chiamati a sé in modo da poter avere un sia pur breve periodo di nuova vita, l'avesse lasciata indietro intenzionalmente o per caso quando la pioggia lo aveva costretto a tornare ad essere polvere come era stato da tanto tempo.
L'antico ordine sacerdotale delle Pellegrine deve essere dotato di certi poteri che esse usano raramente o addirittura mai, e non è assurdo supporre che quella pratica di resuscitare i morti si trovi fra essi. Se è così, Apu-Punchau poteva aver chiamato a sé le sacerdotesse come aveva chiamato noi, e la mantella poteva essere stata abbandonata accidentalmente.
Eppure, anche se era così, poteva darsi che fosse stata servita una qualche più elevata autorità. È in questo modo che la maggior parte dei saggi spiegano il paradosso apparente per cui, sebbene noi scegliamo liberamente di compiere questa o quell'altra azione, di commettere un crimine o di rubare per altruismo la sacra distinzione dell'Empyrian, tuttavia l'Increato mantiene il comando assoluto ed è servito in ugual misura (cioè totalmente) da coloro che obbediscono e da coloro che si ribellano.
E non solo questo. Alcuni, le cui argomentazioni ho letto sul libro marrone e discusso parecchie volte con Thecla, sostengono che fluttuanti nella Presenza si trovano una moltitudine di esseri che, sebbene appaiano minuscoli... addirittura infinitesimali... in confronto risultano enormi agli occhi degli uomini, per i quali il loro signore è talmente gigantesco da essere invisibile. (Egli è reso minuto dalla sua illimitata mole, cosicché noi siamo collegati a lui come coloro che camminano su un continente ma vedono solo le foreste, le paludi, le colline di sabbia e così via, e per quanto avvertano, per esempio, la presenza di qualche sassolino nelle scarpe, non riflettono mai sul fatto che la terra che hanno contemplato per tutta la loro vita sta camminando con loro).
Ci sono altri saggi, inoltre, che dubitano dell'esistenza di quel potere cui si dice che questi esseri, che possono essere chiamati amschaspands, siano asserviti, ma che sostengono nondimeno l'esistenza di questi esseri. Le loro asserzioni non sono basate sull'umana testimonianza... che è abbondante ed a cui aggiungo la mia, perché io ho visto un simile essere nelle pagine fatte di specchi nelle camere di Padre Inire... ma piuttosto su una teoria inconfutabile, perché essi dicono che se l'universo non è stato creato (cosa che, per ragioni non completamente filosofiche trovano conveniente negare), allora deve essere esistito da sempre fino a questo giorno. E se esso è così esistito, il tempo stesso si estende al di là del giorno presente senza fine, ed in un simile, illimitato, oceano di tempo, tutte le cose concepibili devono necessariamente passare. Esseri come gli amschaspands sono concepibili, perché questi saggi e molti altri li hanno immaginati. Ma, se creature tanto possenti sono arrivate ad esistere, come possono poi essere distrutte? Pertanto, esse devono esistere ancora.
Così, per la paradossale natura del sapere, si arriva alla conclusione che, se si può dubitare dell'esistenza dell'Ylem, la primordiale fonte di tutte le cose, non si può però dubitare dell'esistenza dei suoi servi.